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Una riforma della
scuola che voglia essere effettivamente innovativa dovrebbe, credo, cominciare
da una riconsiderazione del tempo
scolastico. Nell’ordinamento in genere adottato nelle scuole occidentali
prevale il concetto di lezione, rigorosamente monotematica e della durata
nominale di un’ora (tre quarti d’ora effettivi). A parte il fatto che non sembra molto
corretto costringere la trattazione –soprattutto se discussa entro predefiniti
limiti temporali– è poco probabile che l’argomento supporti anche
l’incasellamento nei riquadri di un anno scolastico.
Già l’assegnazione di
un argomento a una determinata disciplina risulta dettata da esigenze
organizzative dell’istituto più che da criteri didattici o scientifici,
l’impermeabilità delle varie discipline tra loro appare addirittura
anacronistica in un’epoca di fioritura delle interdiscipline –dalla logica alla
semiotica, alla teoria dei sistemi-. Assistiamo invece alla riduzione, o meglio
alla speciazione delle transdiscipline in aree disciplinari specifiche, mentre
ciò che servirebbe sarebbe piuttosto il contrario, il recupero di ciò che di
sovraspecifico collega tra loro le varie specificità. Certo per parlare di
collegamenti bisogna conoscere i punti da collegare. Un conto è tuttavia
conoscere quei punti nella loro presunta indipendenza –e magari anche la natura
dei collegamenti– un altro considerare tutti questi elementi nelle loro
correlazioni sistemiche….
Mi rendo conto di
elencare delle ovvietà che dovrebbero essere tali anche per un bambino delle
elementari, laddove spesso non lo sono neppure per i suoi insegnanti. Parlavo
giusto oggi con una bambina di Ia elementare, alla quale chiedevo la
sua opinione sulla scuola, i programmi, gli interessi degli allievi ecc., e mi
sono accorto che non una sola delle risposte implicava, da parte della bambina,
un uso del suo cervello diverso dall’uso di un ripetitore meccanico. Sono però
bastati dieci minuti di dialogo libero, non incanalato nel solco dei libri di
testo, che è balzato fuori il pensiero schietto, vivace, irriverente di una
bambina intelligente di nove anni.
Invano ci si domanda
perché, dopo tutto ciò che si conosce del pensiero infantile e le sue
potenzialità, ancora si insista su un modello di scuola fondato sulla
ripetizione passiva, sull’accumulo di un pensiero inerte, irriflesso, falso
anche se non lo sono i suoi contenuti. Mette conto cercar di capire le ragioni
di questa passività denunciata da più di un secolo e la cui denuncia spesso
troviamo ribadita nella premessa ai vari testi di riforma che si sono succeduti
nel corso degli anni, quando gli specifici programmi disciplinari restano
ancorati alla tradizione contenutistica che è il vero ostacolo da infrangere.
Non si dice con ciò che i contenuti siano trascurabili o da posporsi alle
questioni di metodo. Al contrario, i contenuti, per ricevere tutta l’attenzione
di cui hanno bisogno, vanno trattati in modo da mettere in rilievo le loro
peculiarità e questo può accadere soltanto se è sufficientemente sviluppata una
metodologia del confronto per quanto possibile svincolata da ideologismi
preconcetti. La scuola dal canto suo non rinuncia a proporre, anzi a imporre la
sua interpretazione delle cose e della relazione tra esse. Certo, sarebbe
improbabile una scuola che, anziché dare risposte, offrisse solo domande e non
si curasse neppure di verificare le risposte. Non è ovviamente questa la scuola
che vorremmo vedere sostituita a quella delle risposte in assenza di domande.
Perché è questa la ‘normalità’ scolastica: che vengano infilate collane di
riposte a domande che nessuno degli allievi ha mai posto né la scuola stessa ha
esplicitamente sollecitato. C’è, troppo di frequente perché ciò sia casuale,
uno scollamento tra ciò di cui i ragazzi vorrebbero essere informati e ciò di
cui la scuola pensa sia bene informarli. Ma anche le cose che i ragazzi
vorrebbero sapere sono, sia pure indirettamente, pilotate dagli adulti,
cosicché il margine decisionale resta per loro eccessivamente esiguo. Non penso
affatto a un bambino –e neppure a un ragazzo– padrone, ma a un individuo
precocemente consapevole e responsabile dei rapporti che lo legano al mondo quale lui lo vive. Nulla di astratto e
forzato ma un mondo della misura a lui accessibile e di cui possa farsi carico
per la parte che gli compete… Ma qual è questa parte?
Non è certo, non può
essere la stessa per ogni individuo, e di questa variabilità delle condizioni
di vita, in una parola delle diversità tra gli umani e le loro abitudini il
bambino va reso consapevole il più presto possibile così come va reso capace di
gestire queste diversità senza ricorrere alla violenza o anche solo a una
presunzione di superiorità. Questo per la sopravvivenza. Sono stato
indirettamente, tramite mia moglie cresciuta nella Jugoslavia di Tito,
testimone dell’educazione pubblica nella Jugoslavia di Tito, e, per ciò che
riguarda la socialità, la considerazione dell’altro e di se stessi in rapporto a lui, mi è sembrata un modello
degno della massima attenzione.
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