martedì 19 febbraio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xvi)


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Una riforma della scuola che voglia essere effettivamente innovativa dovrebbe, credo, cominciare da una riconsiderazione del tempo scolastico. Nell’ordinamento in genere adottato nelle scuole occidentali prevale il concetto di lezione, rigorosamente monotematica e della durata nominale di un’ora (tre quarti d’ora effettivi). A parte il fatto che non sembra molto corretto costringere la trattazione –soprattutto se discussa entro predefiniti limiti temporali– è poco probabile che l’argomento supporti anche l’incasellamento nei riquadri di un anno scolastico.

Già l’assegnazione di un argomento a una determinata disciplina risulta dettata da esigenze organizzative dell’istituto più che da criteri didattici o scientifici, l’impermeabilità delle varie discipline tra loro appare addirittura anacronistica in un’epoca di fioritura delle interdiscipline –dalla logica alla semiotica, alla teoria dei sistemi-. Assistiamo invece alla riduzione, o meglio alla speciazione delle transdiscipline in aree disciplinari specifiche, mentre ciò che servirebbe sarebbe piuttosto il contrario, il recupero di ciò che di sovraspecifico collega tra loro le varie specificità. Certo per parlare di collegamenti bisogna conoscere i punti da collegare. Un conto è tuttavia conoscere quei punti nella loro presunta indipendenza –e magari anche la natura dei collegamenti– un altro considerare tutti questi elementi nelle loro correlazioni sistemiche….

Mi rendo conto di elencare delle ovvietà che dovrebbero essere tali anche per un bambino delle elementari, laddove spesso non lo sono neppure per i suoi insegnanti. Parlavo giusto oggi con una bambina di Ia elementare, alla quale chiedevo la sua opinione sulla scuola, i programmi, gli interessi degli allievi ecc., e mi sono accorto che non una sola delle risposte implicava, da parte della bambina, un uso del suo cervello diverso dall’uso di un ripetitore meccanico. Sono però bastati dieci minuti di dialogo libero, non incanalato nel solco dei libri di testo, che è balzato fuori il pensiero schietto, vivace, irriverente di una bambina intelligente di nove anni.

Invano ci si domanda perché, dopo tutto ciò che si conosce del pensiero infantile e le sue potenzialità, ancora si insista su un modello di scuola fondato sulla ripetizione passiva, sull’accumulo di un pensiero inerte, irriflesso, falso anche se non lo sono i suoi contenuti. Mette conto cercar di capire le ragioni di questa passività denunciata da più di un secolo e la cui denuncia spesso troviamo ribadita nella premessa ai vari testi di riforma che si sono succeduti nel corso degli anni, quando gli specifici programmi disciplinari restano ancorati alla tradizione contenutistica che è il vero ostacolo da infrangere. Non si dice con ciò che i contenuti siano trascurabili o da posporsi alle questioni di metodo. Al contrario, i contenuti, per ricevere tutta l’attenzione di cui hanno bisogno, vanno trattati in modo da mettere in rilievo le loro peculiarità e questo può accadere soltanto se è sufficientemente sviluppata una metodologia del confronto per quanto possibile svincolata da ideologismi preconcetti. La scuola dal canto suo non rinuncia a proporre, anzi a imporre la sua interpretazione delle cose e della relazione tra esse. Certo, sarebbe improbabile una scuola che, anziché dare risposte, offrisse solo domande e non si curasse neppure di verificare le risposte. Non è ovviamente questa la scuola che vorremmo vedere sostituita a quella delle risposte in assenza di domande. Perché è questa la ‘normalità’ scolastica: che vengano infilate collane di riposte a domande che nessuno degli allievi ha mai posto né la scuola stessa ha esplicitamente sollecitato. C’è, troppo di frequente perché ciò sia casuale, uno scollamento tra ciò di cui i ragazzi vorrebbero essere informati e ciò di cui la scuola pensa sia bene informarli. Ma anche le cose che i ragazzi vorrebbero sapere sono, sia pure indirettamente, pilotate dagli adulti, cosicché il margine decisionale resta per loro eccessivamente esiguo. Non penso affatto a un bambino –e neppure a un ragazzo– padrone, ma a un individuo precocemente consapevole e responsabile dei rapporti che lo legano al mondo quale lui lo vive. Nulla di astratto e forzato ma un mondo della misura a lui accessibile e di cui possa farsi carico per la parte che gli compete… Ma qual è questa parte?
Non è certo, non può essere la stessa per ogni individuo, e di questa variabilità delle condizioni di vita, in una parola delle diversità tra gli umani e le loro abitudini il bambino va reso consapevole il più presto possibile così come va reso capace di gestire queste diversità senza ricorrere alla violenza o anche solo a una presunzione di superiorità. Questo per la sopravvivenza. Sono stato indirettamente, tramite mia moglie cresciuta nella Jugoslavia di Tito, testimone dell’educazione pubblica nella Jugoslavia di Tito, e, per ciò che riguarda la socialità, la considerazione dell’altro e di se stessi in rapporto a lui, mi è sembrata un modello degno della massima attenzione.

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