mercoledì 7 febbraio 2018

Tratta LI.8 (La sestina ipermetra) - Una possibile lettura politica della sonata per pianoforte op. 111 di Ludwig van Beethoven


[In musica, ci dicono, la forma dialettica per eccellenza è la sonata classica, anzi il suo primo tempo – gli altri potendo assumere vari altri modelli – soprattutto per come lo ha trattato Beethoven nelle sue opere strumentali (sonate, quartetti, sinfonie ecc.). Il terreno era stato dissodato già da Haydn e Mozart, cosicché non restava altro da aggiungere, dal punto di vista delle ‘forme’, che l’ampliamento di questa e la sua progressiva dissoluzione. Ad ambedue le cose provvederà Beethoven, soprattutto nei cinque ultimi quartetti e nella Grande Fuga. Quanto alla Sonata op. 111, la sua novità, o meglio ‘unicità’, risiede non tanto nella forma in sé – sia il primo tempo che le successive variazioni non si discostano granché dai rispettivi modelli – quanto
1)             nello spostamento del peso specifico dal primo al secondo tempo, nonostante la poderosa introduzione e l’irruente scrittura del primo.
2)             L’inevitabile investitura simbolica nel rapporto tra i due tempi, cui qui daremo veste politica, ma che potrebbe essere interpretato come un estremo saluto alla forma sonata (Adorno, Mann) o in molti altri modi.
(È questa una caratteristica della semantica musicale che, ben più di quella verbale, può ricevere letture fortemente diversificate, al limite della contraddittorietà.)

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La 1) ci riguarda in questa sede solo in quanto supporto formale per la 2), di cui rileva al massimo grado la pregnanza semantica.
Ci si potrà chiedere che cosa ci invita a riconoscere questa “pregnanza semantica” in una serie di variazioni, indubbiamente assai diversificate eppure unitarie un tempo. Qui converrà rivolgere l’attenzione al termine di riferimento cui arbitrariamente ci siamo rivolti: la ‘politica’. Anziché alla politica nelle sue generalità cercheremo di limitarci il parallelo all’odierna democrazia mercantile e concorrenziale. È questa un’abbastanza evidente derivazione del pensiero dialettico-liberale, maturato nel corso del Settecento in simbiosi con il suo contrario – o apparente contrario – : il soggettivismo sentimentale. L’uno favorisce lo sviluppo dell’economia e la produzione di ricchezza, l’altro un uso ‘nobile’ e moralmente difendibile della ricchezza prodotta. Alla base di tutto questo c’è un principio di dualità: bene/male, giusto/sbagliato, colpevole/innocente, ricco/povero ecc. Ambedue i termini di questa dualità fanno parte del nostro mondo, che quindi è retto dalla loro opposizione, con altre parole, dalla guerra che, quando si limita allo scontro verbale, prende il nome di ‘polemica’ [1]. Si osserverà che nel discorso politico, anche se i contenuti potrebbero con facilità accordarsi l’un l’altro, si preferisce di gran lunga la polemica, che oltretutto conserva l’individualità degli opponenti. L’individuo infatti emerge dalle opposizioni e ognuno di noi ci tiene soprattutto ad affermarsi come tale. Il comunismo, al di là delle sue efferatezze, si è rivelato inviso ai più, e quindi perdente nella competizione col capitalismo, per l’appiattimento dell’individuo sulla collettività. Se qua e là è rimasto in vita e proprio per la sua oppositività nei confronti del suo concorrente. Un comunismo con qualche chance di sopravvivenza dovrebbe forse basarsi su un fondamento unitario anziché dualistico?
Ha senso fondare il due sull’uno?
In matematica, certamente: il concetto di ‘successore’ è basilare e il due si ottiene dall’uno appunto applicando quel concetto, e lo zero, che in origine non era successore di nessun numero, è potuto diventarlo – ‘successore’ e ‘numero’ – solo con l’invenzione dei numeri negativi.
Più in genere il linguaggio permette sempre di fondare la pluralità sull’unità anche senza l’intervento di un ‘successore’. Basta che inventi una parola che designi un livello numericamente superiore a quello dato e… il gioco è fatto: pecora > gregge, individuo > famiglia > nazione > specie umana… Sulla realtà oggettiva di questi livelli, compreso il primo, c’è da dubitare, ma dal punto di vista comunicazionale funzionano benissimo. La pluralità è quindi accettabile non meno dell’unità e, politicamente, la pluralità democratica non è da meno dell’unità comunista. Ciò vuol dire che non è difendibile la preminenza dell’una sull’altra. Il criterio di scelta deve essere pratico, circostanziale e non teorico.
Storicamente il comunismo è risultato perdente. La cosa è significativa?]



[1]    Dal greco pólemos, appunto ‘guerra’.

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