lunedì 16 febbraio 2009

Parabola: Dafne

Questo lunedì una parabola di Boris: Dafne. Si riprende il mito greco della ninfa che sfugge al dio Apollo trasformandosi in arbusto... qui le cose sono un pò diverse.


Abitava al limite di una foresta che le avevano detto fosse molto grande. Lei però non ci era mai entrata aldilà di una stretta cintura erbosa con ancora pochi alberi piuttosto distanziati tra di loro. Eppure la foresta l’attirava ma, quando era al dunque, ne aveva paura.
Quella mattina però, una bella mattina di maggio, era ben decisa a tentare l’avventura.
S’incamminò con passo fermo e ben presto ebbe superato la cintura erbosa. Il terreno era ancora umido dalle piogge primaverili e le orme lasciate dal suo passaggio tendevano a richiudersi per l’instabilità della fanghiglia. Anche l’erba calpestata dal suo agile piede si raddrizzava quasi subito. Strano, pensava la ragazza, forse gli steli sono ancora sufficientemente flessibili da non farsi spezzare dal mio lieve peso. Provò anche a tornare sui suoi passi per ritrovarne la traccia, ma invano. Se dovessi perdermi, pensò, non mi troverebbero di certo. Ma il pensiero, anziché preoccuparla, le provocò un senso di sicurezza, quasi un’investitura di autonomia, di responsabilità finora sconosciuta.
Gli alberi, intanto, si erano avvicinati l’uno all’altro e lei a loro. Le ampie chiome dei faggi e delle querce, inframezzate da nere macchie di abeti, stringevano l’azzurro del cielo entro spazi sempre più piccoli, da cui, sempre più rari, filtravano i raggi del sole.
Di regola le foreste d’alto fusto, specie se di faggi, non lasciano penetrare luce sufficiente per un ricco sottobosco. Qui invece, forse per la presenza di molte querce, il sottobosco non solo era rigoglioso, ma raggiungeva quasi il suolo, impedendo il passo al viandante.
La ragazza era sottile abbastanza per districarsi senza troppa difficoltà. A un certo punto però agli ostacoli dal basso altri se ne aggiunsero dall’alto. Una certa parte del bosco, che però sembrava occuparlo tutto, era infestata da liane parassite che pendevano da ogni ramo, pressoché impossibili da spezzarsi. Un coltellino che la ragazza aveva con sé riusciva a malapena a tagliare le più giovani, non ancora indurite. Alcune di queste liane –o erano erbe crescenti dal suolo?– avevano per giunta minuscoli dentini –o erano peli?– che si attaccavano ai capelli e agli abiti.
Questi si strappavano, ma quelle no. In breve, la ragazza si trovò immobilizzata in tutto il corpo, ma la cosa non le dispiaceva. Si ricordò di qualcosa di cui le avevano parlato a scuola: il mito di una ninfa, che, per sfuggire al suo inseguitore (ma perché aveva voluto sfuggirgli?), si era trasformata in un arbusto, e le sembrò che anche le liane e i rami che la tenevano prigioniera fossero braccia e gambe umane, e provò una grande dolcezza. No, non era lei ad aver subito la metamorfosi, era l’uomo che la stava abbracciando.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Bell'esempio di rovesciamento... e così la fanciulla trova l'uomo proprio nella natura in cui si immerge... quel che mi colpisce in questo mito è il punto in cui l'uomo e la natura coincidono: la metamorfosi, in buona sostanza. Metamorfosi che allude, secondo me, all'idea di poter "parlare" con la natura, mai come oggi costretta ad una triste mancanza di comunicazione. Ho l'impressione che ci siamo auto-esclusi dal mondo, e abbiamo perso la via di quel bosco che ci spaventa.
Bene, pensieri in libertà! Buonlavoro a tutti!

Anonimo ha detto...

Salve a tutti,
Molto lieto di averla tra noi gentile Anonimo\a...Una bella interpretazione la Sua. Credo che se ci interessa sopravvivere quella via in equilibrio tra stili di pensiero e di vita bisognerà trovarla, in caso contrario, la notte si avvicinerà...
Per la sopravvivenza, un sempre più schizzato Signor A.
A presto

Rigobaldo ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Rigobaldo ha detto...

Gentile Anonimo, gentile Signor A.,

il bello di queste parabole, non c'è bisogno di dirlo, risiede nella molteplicità di interpretazioni possibili.

Aggiungo un'alternativa sempliciotta. Come il bosco è immagine della natura, della terra, la fanciulla è immagine dell'umanità. E l'uno "ha deciso" (ha sete!) di inghiottire dolcemente l'altra, di non lasciarne traccia. E l'altra ha riconosciuto che dopo di tutto non è un'idea tanto cattiva, e "accetta", psicologicamente parlando (fisicamente parlando non si può parlare di accettazione, visto che non c'è altro da fare).

Ma Signor A., mi raccomando! Bando allo schizzamento! Quando la notte incombe, l'atteggiamento più saggio non consisterebbe forse nel godersi perbene il crepuscolo?

Guardi là sull'orizzonte ovest! Non scorge un oggetto lucentissimo?

Distinti saluti,

Anonimo ha detto...

Gentile Rigobaldo, gentili tutti, concedetemi una battuta fra amici, per sdrammatizzare.
Quello che scorgo là sull'orizzonte ovest, è un immagine ben definita, più passano gli anni e più mi è chiara, luminosa e definita, è una celeberrima metafora della vita, mi permetto di riportare qui citando un antico detto napoletano.
La vita è come la scaletta del pollaio: corta, in salita e piena di merda!
In questa visione certamente ottimistica del nostro futuro, e delle vie percorribili dall'umanità, qualche vegetale qua e la potrebbe dare un tocco di eleganza a questa atmosfera un tantino cheap.
Buona notte, vi prego di perdonarmi.
Il Signor A.