martedì 22 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xii)


[512]
È noto che i percorsi formativi che più direttamente sfociano nel mondo del lavoro sono quelli a orientamento tecnico-specialistico, che impegnano le nostra capacità operative in una sola direzione: esempio classico, il fordismo, dove al lavorante non viene neppure richiesta la comprensione del suo atto lavorativo all’interno del processo produttivo. Oggi si dà anche il caso contrario: il possesso di una o più sequenza operative applicabili a diversi progetti. Questa trasferibilità più o meno meccanica può venir concepita come altrettanto limitante del caso precedente. La mente vi è impegnata solo come fornitrice di strutture preconfezionate da adattare a situazioni che le richiedono. Resta relativamente fuori gioco la facoltà che più tipicamente le compete, quella di reagire individualmente e imprevedibilmente all’imprevedibilità della situazione. In altre parole viene messa tra parentesi l’inventiva, quella che per molti è la principale ragione di vita.

Ai suoi gradi inferiori il pensiero risulta bloccato dall’apprendimento, successivamente dalla ripetitività. Restano così inutilizzate la maggior parte delle potenzialità rese disponibili dai cervelli umani con una perdita secca difficilmente quantificabile ma certamente altissima. Può la scuola permettersi e a che scopo una così gravosa perdita, che non potrà che pesare sull’intera società e per un tempo non trascurabile?

mercoledì 16 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (xi)


[511]
Molti, per non dire tutti i problemi sociali cui l’adulto va incontro si manifestano già nell’infanzia ma nessuno è più trascurato che quello delle pari opportunità. Già la separazione tra scuola pubblica e privata contravviene a  questo principio base di uguaglianza. Solo che lo svantaggio culturale non è dalla parte che vorrebbero le famiglie abbienti. Ricordo di aver frequentato ambedue i tipi di scuola e di essermi trovato più a mio agio in quella privata, mentre la qualità dell’insegnamento era decisamente superiore nella scuola pubblica. Un altro punto che già da piccolo mi trovò in disaccordo con l’opinione oggi nuovamente in auge in ambito scolastico: il principio meritocratico. Certo, altri criteri discriminanti sono ancora meno accettabili, così la ‘spintarella’, molto di moda ai miei tempi ma, credo, altrettanto oggi. Ciò che non condividevo e non condivido è la discriminazione in sé, almeno ai primi livelli di scolarizzazione. Credo che compito delle scuole è offrire le migliori condizioni di sviluppo e apprendimento e tra queste non ritengo sia compresa la competitività, non perlomeno in questo stadio. Negli animali sarà pure così, ma non necessariamente nella specie umana dove l’evoluzione in senso darwiniano potrebbe aver fatto nascere altre forme relazionali dominanti come per esempio la cooperazione o la simbiosi. La scuola sarebbe quindi il terreno di prova per più di un modello relazionale tra cui selezionare quello vincente, ma non ha fatto che riproporre a un livello ‘superiore’ lo stesso modello competitivo. Potrebbe anche darsi che il nuovo modello di sviluppo sia asimmetrico nel tempo e che sia variabile, cosicché lo schema competitivo marcato fino a ieri dal segno +, da domani riceva il segno – e scompaia dalla storia della vita. Penso che la scuola abbia il duplice compito di conservare le scelte compiute finché si dimostrino favorevoli alla sopravvivenza, ma sia anche disposta a nuove scelte quando le vecchie non abbiano più ragion d’essere. Un tempo forse la competizione con le sue estreme conseguenze potevano avere un diritto di esistenza, oggi potrebbero non averlo più, e la guerra, che Darwin giudicava ancora indispensabile alla vita, potrebbe rivelarsi l’anticamera dell’estinzione, almeno per la nostra specie.

Tornando, credo che qualunque progetto di riforma, anche quindi un’effettiva riforma scolastica non miopemente ristretta all’immediata contingenza, debba affrontare i problemi di oggi congiuntamente a uno sguardo sufficientemente protratto verso un futuro sempre più incombente.

lunedì 7 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (x)


[510]
Gli argomenti usati dalla destra nel dibattito politico si riducono generalmente all’aver vinto molte tornate elettorali consecutive senza altro che appunto questo. Certo, si tratta di un argomento assai forte in democrazia, ma è perlomeno singolare che, visti i risultati fallimentari ottenuti, si continui a prestar fede al modello politico prescelto. È vero che in altri paesi i risultati sono stati altrettanto deludenti, ma è difficile negare che nell’insieme la democrazia rappresentativa abbia bisogno, per reggere la concorrenza, di energici correttivi in senso totalitario. Un tale correttivo è del resto già in atto da noi con l’autocrazia del governo Berlusconi che di democratico ha solo più il nome. La svolta autocratica dell’attuale (fine 2010) governo italiano è avvenuta tuttavia per un abbassamento della soglia di coscienza individuale a fronte di un attacco mediatico senza precedenti. I sistemi formativi non sono ancora oggi preparati a sostenere questo attacco, e così la svolta autocratica, necessaria forza a riequilibrare la deriva anarchica innescata dal berlusconismo come prima fase della sua conquista del potere, è stata gestita all’interno dello stesso disegno politico. Non possiamo essere sicuri che questo disegno sia stato concepito ed eseguito con questa lungimiranza – bisognerebbe riconoscere al suo ideatore qualità politiche sicuramente eccezionali, ancorché perverse. Comunque, cosciente o no, l’itinerario percorso dall’avventura berlusconiana è, credo, ben rappresentata da una descrizione. Ma non è certo questo il correttivo autoritario di cui la democrazia ha bisogno per uscire dal pantano anarcoide in cui è precipitata.

E allora qual è l’auspicato correttivo, come dobbiamo immaginarne la costruzione?

È impensabile affidarla a un unico artefice personalizzato. Il pericolo è troppo grande che prevalgano come una volta interessi personali, anche se di senso contrario a quelli rappresentati dal berlusconismo. Il correttivo cui accennavo –almeno fin quando sia necessario apporlo a una democrazia fortemente inquinata– non può che essere frutto di un pensiero logicamente rigoroso a costo di apparire, come dicono alcuni, ‘giustizialista’. Vedrei questa come una fase politica di transizione volta al ristabilimento di una condivisibile convivenza civile, una sorta di rifondazione dello stato democratico. Una fase del genere non credo possa essere affidata ai partiti, che per forza di cose finirebbero per soggiacere ai particolarismi che tuttora ne guidano le azioni. C’è bisogno di una nuova costituente che appronti una nuova Costituzione, figlia della precedente, che nasca dall’esame, criticamente approfondito, di quanto avvenuto nel sessantennio appena trascorso. A questa Costituente dovrebbero essere chiamati filosofi, politologi, sociologi, giuristi e altri studiosi di discipline interessanti la comunità, più una congrua rappresentanza di un pensiero di base – ulteriormente definibile. A questo comitato fondante dovrà essere garantito un periodo di lavoro sufficientemente lungo per produrre un testo in grado di adeguare il precedente alle nuove esigenze emerse in questo lasso di tempo. Ripeto: è essenziale che la valutazione di quanto avvenuto non sia affidata alle basi politiche –e o loro leader– attivi in precedenza. Questa condizione, che a qualcuno potrà apparire stravagante e forse anche ingiusta, è resa probabilmente necessaria per azzerare una situazione divenuta ormai insostenibile. Lo stato confusionale in cui sembra essere caduta la società italiana ha, credo, bisogno di un ritorno –si spera momentaneo– alla pratica terapeutica dell’elettroshock.

domenica 6 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (ix)



[509]
Da qualche anno la tendenza più diffusa nei paesi democratici è la riduzione del numero dei partiti a due schieramenti contrapposti. Anche se all’interno degli schieramenti i partiti permangono, nei momenti cruciali –cioè essenzialmente agli appuntamenti elettorali– tutto si semplifica a favore di un sostanziale bipartitismo che però non soddisfa nessuno. Là in una società pluripartitica un singolo elettore cambia opinione politica e si iscrive per esempio a un altro partito, la cosa non è di particolare rilievo, a meno che non si tratti di un personaggio molto noto proprio per quelle sue opinioni. Anche se a cambiare contenuto è un intero partito, potranno esserci defezioni o crescite improvvise, ma la cosa non provocherà in genere scandalo o eccessivo risentimento. Se però a ‘cambiare casacca’ sono i componenti di uno schieramento, ecco che si parlerà di ‘ribaltone’ se non addirittura di ‘tradimento’. Lo schieramento viene evidentemente percepito da molti come più vincolante che non il partito o la coerenza con se stessi.

sabato 5 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (viii)


[
508]
Non so che risonanze risvegli la parola ‘politica’ nelle varie lingue. Lo so solo per la lingua italiana perché la mia conoscenza, pur buona, del tedesco ha avuto poche occasioni di misurarsi con argomenti politici, essendosi evoluta nella quotidianità solo durante l’infanzia e per il resto in ambito letterario-filosofico. La mia impressione è tuttavia che se ne faccia minor consumo che in Italia, nel senso che in Germania chi parla di politica sa in genere di che cosa parla mentre da noi sa tutt’al più quel che ha detto la televisione. Può darsi tuttavia che si tratti di una falsa impressione dipendente dal fatto che, vivendo io in Italia, sono più facilmente infastidito dal comportamento dei miei concittadini che da quello di persone con cui vengo a contatto più raramente.

Mi capita spesso di seguire i nostri dibattiti politici in televisione. Mentre l’uno sostiene con ardore la tesi che 2+2=4 si vede l’altro scuotere ostensivamente la testa, impaziente di manifestare il suo dissenso, che esploderà ben prima che quello abbia terminato il suo intervento. L’intensità delle voci aumenta, quasi che, se si parla più forte in due ci si capisce meglio. A questo punto si aggiunge la voce del conduttore che tenta invano di separare, con la sua, le vocalità dei contendenti. Eventuali altri partecipanti ritengono sia giunto il momento di dire la loro e lo fanno trascinando con sé una parte del finto pubblico casualmente presente in sala. Per parcondicio interviene anche l’altra parte finché sopravviene, provvidenziale, la Pubblicità e per qualche istante si ode, chiara e distintiva, una voce che ci informa su una marca di tortellini che conoscevamo già da anni. Questo spettacolo polifonico si ripete più volte al giorno quasi senza varianti. Con questo non voglio dire che le parole pronunciate siano solo chiacchiere da salotto o parole al vento. Spesso sia le tesi esposte che gli argomenti contrari o a favore sono senz’altro degni di attenzione, solo che così trattati in forma antagonista senza che neppure se ne osservino le occasionali convergenze e le possibili modulazioni reciproche, finiscono per elidersi a vicenda. L’orientamento che ne deriva è incerto e la situazione di stallo, con grande dispendio di energia non utilizzata, l’economia entra in sofferenza e il cittadino con lei. Ma il problema non è solo dei dibattiti televisivi, dove l’impossibilità di raggiungere un accordo può addirittura giovare allo spettacolo. Ma fuori d’Italia la politica non si limita ad essere ‘spettacolo’.

venerdì 4 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (vii)




Il combattimento, di Edward Hart

[507]
Di che cosa parlano allora se non di politica quelli che dicono di parlar di politica? Di crescita economica, di progresso materiale, di guadagno, di benessere, il tutto riferito soprattutto a se stessi, alla propria situazione locale. Il benessere di una popolazione andina o centroafricana ci importa assai meno, possiamo addirittura dire che il coinvolgimento diminuisce con il quadrato della distanza, e, se fingiamo una partecipazione maggiore, o è per altro tipo di interessi o per ipocrisia. Del pari risulta spesso fastidioso il continuo richiamo al ‘popolo’ (sovrano) e alla sua ‘volontà’, espressi nelle forme alquanto disturbate delle votazioni e condizionate dalle voci più forti e promettenti. Nulla di ciò può dirsi ‘politica’, se non in un senso fortemente degradato.

La stessa locuzione ‘lotta politica’, segnala una distorsione di senso che ci allontana da quello che dovrebbe essere il significato primo del termine in questione. Perché ‘lotta’ e non ‘confronto’ o meglio ‘analisi’, ‘riflessione’? Difficilmente diremmo guerra una divergenza tra correnti filosofiche o ipotesi scientifiche; lo diciamo però –e non ci limitiamo a dirlo– tra religioni, anche per piccole varianti, o meglio che appaiano piccole a chi non se ne fa un’arma offensivo-difensiva. E perché questa differenza di valutazione? Per l’associazione con il potere, non solo ideologico ma anche effettivo, materiale. La politica non include necessariamente l’idea di ‘potere’, anzi delimita piuttosto un’area dove la differenza venga trattata dialetticamente con esclusione della forza. Una politica che porti allo scontro non è, non dovrebbe essere considerata una ‘buona politica’, in quanto non fa altro che aggiungere danno al danno. Forse, finché abitavamo luoghi che si pensavano distanti l’uno dall’altro poteva avere un senso, grettamente egoistico, mirare a una posizione di privilegio per sé o per il proprio gruppo di appartenenza. Oggi che abbiamo conosciuto l’infinita piccolezza della terra è quasi ridicolo lottare per una qualche supremazia vuoi economica vuoi culturale, e la politica farebbe a occuparsi del benessere di tutti nella misura compatibile con le nostre aspettative di vita.

giovedì 3 gennaio 2013

Pratica musicale quasi di base

mercoledì 2 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (vi)


[506]
È mia convinzione che allo stato attuale, almeno a livello delle grandi concentrazioni di potere, la politica come forma di pensiero riguardante la salvaguardia della collettività non ha più alcun ruolo. La parola risuona con sempre maggiore frequenza in bocca a chi crede di rivestirla di significato concreto, quando invece non fa che sostituirlo con altri significati che con la politica non hanno più niente a che fare, posto che l’abbiano mai avuto. Proprio la globalizzazione dei problemi legati alla sopravvivenza ha portato alla contrazione del pensiero politico su due modelli antagonisti, nessuno dei quali è in grado neppure di affrontare quei problemi. Che cosa l’umanità ha fatto per uscire da questo impasse?
Per prima cosa ha riproposto, con piccole varianti di forma ma con sempre maggiore impiego di mezzi devastanti, lo schema tradizionale dello scontro bellico, poi trasferito su quello, apparentemente meno cruento, ma altrettanto infame, dello strozzamento economico o finanziario. Infine ha dato inizio a una guerra informatica di cui non sono prevedibili gli sviluppi e tanto meno gli esiti.
Immutabile è rimasto per contro il pensiero politico di fondo, antagonistico e competitivo come e più di prima. Il fatto che l’Occidente si nasconda dietro una maschera pacifista non deve ingannare –ed effettivamente non inganna– gli altri popoli, che più rozzamente contrattaccano con l’arma impropria del terrorismo in attesa di portarsi all’altezza tecnologica dei loro avversari. E, come vediamo giorno per giorno, per molti di questi popoli, la parità, nonché raggiunta, può dirsi ormai superata. Non c’è che da sperare che il sorpasso sia avvenuto, come forse è già il caso, anche sul versante del ‘pensiero politico’. L’esempio, non certo felicissimo, dell’Unione Europea c’è da augurarsi che venga surclassato da quello sudamericano, vivificato da una robusta cura di marxismo non sovietico. Spero di non sbagliarmi nel vedere proprio nel Sudamerica un terreno di sperimentazioni per un nuovo modo di intendere e praticare la politica.

[Nell'illustrazione, una mappa con le unità amministrative di primo livello del continente sudamericano prodotto da N. V. Kelso http://kelsocartography.com/]

martedì 1 gennaio 2013

Ancora diciannove riflessioni su politica, potere, formazione (v)


Inherently Powerful, Unexpectedly Sweet, del fotografo Said Ehrlich
[505]
Sono troppi i privilegi, economici e di prestigio, legati al ‘politico di professione’ per non farne una figura di spicco della società, mentre la semplice qualifica di ‘politico’ spetta a tutti gli individui della specie homo sapiens. Una qualifica, questa, cui tuttavia corrispondono delle responsabilità che per molti di noi sono troppo gravose da essere sopportate. Quindi preferiamo di gran lunga delegarle a quei professionisti, che dal canto loro sono ben lieti di farsene carico perché diamo loro mano libera sul come. Al cittadino comune non resta quindi che l’incombenza, assai meno gravosa, di scegliere chi sceglierà per lui e, se queste scelte non saranno di suo gusto, il cittadino si riserva il diritto di revocargli la delega e di passarla a un altro. Il tutto secondo regole che, anche queste, vengono decise da cittadini nominati allo scopo. La complessità di questo meccanismo, assai superiore a quanto qui descritto, è chiaro che si presta a infinite letture differenti, ciascuna delle quali giudicata illegittima dagli altri lettori, anche a prescindere dalle altre altrettanto numerose occasioni di rimescolare le carte in tavola, non si vede come un sistema siffatto possa portare a un’affidabile operatività concreta. Eppure niente di meglio si è trovato in millenni di tentativi in ogni parte del mondo. Lo chiamano democrazia, governo del popolo, quando il concetto stesso di ‘popolo’ tutto è meno che definibile in modo convincente. Non ci resta perciò che contentarci di quel che abbiamo e cercare di farlo funzionare al meglio. Ed è proprio ciò che non facciamo quando –ed è il caso più frequente- applichiamo questo meccanismo alla quotidianità, dove risultano assai più efficaci e redditizi, soprattutto per il singolo, altri modelli, quanto mai lontani da quello democratico. Non solo quindi abbiamo smesso di cercare al di là del modello democratico rappresentativo, ma non abbiamo neppure sondato tutte le possibilità di questo. E perché non l’abbiamo fatto? Appunto per la sua intrinseca debolezza, per l’invasione dell’ io nella compagine del noi, per il potere disgregante di quello che nei confronti di questo, ovvero per l’incapacità dei molti di desistere al potere attrattivo dell’uno.