giovedì 21 giugno 2012

Ter conatus ibi collo


Dante e Virgilio nell'Inferno – William-Adolphe Bouguereau (1850)

[399]

Ter conatus ibi collo dare brachia circum, 

ter frustra comprensa manus effugit imago
par levibus ventis volucrique simillima somno.

(Per tre volte tentò di gettargli le braccia al collo, per tre volte l’ombra vanamente abbracciata gli sfuggì di mano, simile a vento lieve e a fugace sonno.)

Siamo negli inferi, dove Enea rincontra l’ombra del padre Anchise, che li predirrà le magnifiche sorti di Roma. Virgilio finge qui un sapere reale che lui possiede, ma Enea non poteva conoscere. Lo affida quindi allo spirito onnisciente di un defunto. L’uomo non accetta la barriera che separa il passato dal futuro e tenta con ogni mezzo –magia, fede, speranza– di infrangerla. Ma non ci riesce, come quando cerca invano di riabbracciare un passato irrimediabilmente trascorso. Non credo che Virgilio intendesse questo con la bella immagine del triplice vano abbraccio, ma la polisemanticità del linguaggio poetico permette fare questo ampliamento interpretativo.
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Ricordo quanta fatica ci costava, nelle versioni dal latino, rendere in un italiano comprensibile la sintetica città dell’originale. Qui per esempio la ‘frustra comprensa … imago’ la “tre volte invano abbracciata immagine” occupa sì e no mezzo verso, mentre una traduzione appena accettabile occuperebbe uno spazio all’incirca doppio. Non fosse altro che per questo –cioè per fare toccare con mano la differenza tra lingue anche vicine e le diverse loro caratteristiche espressive– avrei voluto fosse conservata alle giovani generazioni l’esperienza del latino e, per tutt’altre ragioni, anche del greco. Mi si obietterà che la stessa o analoga esperienza la si può fare anche con una lingua ‘viva’. Vero, ma il confronto fatto con una lingua non più attuale –ma non per questo ‘morta’– ci permette di concentrare l’attenzione sugli aspetti strutturali della lingua, sfuggendo all’urgenza comunicativa che predomina di gran lunga nell’apprendimento ‘funzionale’. Ma –insisterà l’obiettore– le lingue servono anzitutto per comunicare, non per rimirarsi allo specchio. Ancora una volta: vero, ma talvolta può essere utile, oltreché divertente, osservarle funzionare, anche per rimanerne alla guida e non esserne sopraffatti, visto che la loro malcelata ambizione è di essere loro a guidare noi semplici passeggeri.
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Nella ripresa che Dante fa di questa immagine virginiana si legge
O ombre vane, fuor che nell’aspetto!
tre volte retro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Nessuna similitudine a commento del fatto, nessun rinforzo metaforico. Perché?
Anzitutto perché Dante non è Virgilio, poi perché diverse sono le culture, diverso il momento storico. Virgilio vive l’apogeo culturale della latinità, consapevole dell’equilibrio raggiunto, che può attardarsi a ornare la sua invenzione con immagini letterarie; Dante invece, che scrive incalzato dalla turbolenza dei suoi tempi, taglia corto e si attiene a un realismo degli affetti che l’altro, il cantore ufficiale dell’età augustea, non può che rivestire di letteratura.
Riflessione, queste, che fino a pochi anni fa avrei ripudiato, attribuendole a un livello alto-colto, lontano dalla mia ricerca sui fondamenti, anche linguistici, della cultura. Oggi non vedo perché non coinvolgere in questa ricerca chiunque ne sia interessato e così, ogni tanto, ci provo.

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