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Un signore di età matura osserva una ragazzina saltellargli intorno. Un po’ lo cerca, un po’ lo evita con la
inconsapevole malizia dei suoi anni. Ne ha infatti dodici o tredici; le sue
movenze sono quelle di un cerbiatto che insegue la timida madre per le balze
sabbiose, impaurito da ogni stormir di fronda. Ma il signore non sembra avere
cattive intenzioni: non è una tigre feroce né un getulo leone pronto a
sbranarla. È solo un poeta in vena di scrivere eleganti versi e lei non ha
nulla da temere. Lasci quindi la madre, tanto più che è ormai ragazza da
marito.
L’ultima esortazione:
tandem desine matrem
tempestiva
sequi viro.
non è tuttavia del tutto
rassicurante. Orazio gioca qui con improvviso mutamento di tono; dall’innocente
immagine del cerbiatto al riconoscimento di uno stato di cose: il cerbiatto è
ormai una ragazza da farci all’amore. E in questa brusca virata verso la realtà
sta forse la trovata poetica che cambia d’un colpo la prospettiva di questa
piccola ma straordinaria poesia: sì,
ora la ragazza ha davvero ragione di temere, ma di se stessa.
Vitas hinnuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus aviis
matrem non sine vano
aurarum et siluae metu.
Nam seu mobilibus veris inhorruit
adventus foliis seu virides rubum
dimovere lacertae,
et corde et genibus tremit.
Atqui non ego te tigris ut aspera
Gaetulusve leo frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro.
(Mi sfuggi, Cloe come un
cerbiatto / che per i monti
impervii / cerchi la madre vanamente impaurita / dallo stormire della fronda //
Se infatti l’arrivo della primavera / scuote le foglie o un verde ramarro
s’agita tra i rovi / le tremano cuore e ginocchia. // Eppure non t’inseguo per
sbranarti / come una tigre feroce o un leone di Getulia, / lascia finalmente
tua madre / ora che sei buona per un uomo.)
Da qualche anno ho ripreso, con l’aiuto di un traduttore, le
letture abituali ai tempi del liceo, non più incalzato dagli obblighi
scolastici, ma per semplice diletto, e posso dire che di questo diletto non
ringrazierò mai abbastanza le circostanze che me lo hanno concesso; il ‘tempo
libero’, di cui oggi ho abbondanza, ma più ancora la scuola, che ha ampiamente
compensato i dispiaceri di allora con il piacere che i medesimi oggetti mi procurano
oggi. Temo che per un ragazzo dell’era dei telefonini e dei computer sia quasi
impensabile un pomeriggio passato in poltrona a leggere Orazio. Lo stesso ragazzo
potrebbe obbiettarmi che internet è assai più divertente e anche istruttivo di
Orazio perché vi si legge l’enorme ricchezza accumulata in altri duemila anni
di storia dell’umanità. E potrebbe anche avere ragione. Per sincerarsene gli
consiglierei di chiudere per qualche ora suoi apparecchi –che anch’io posseggo–
e di aprire le Odi di Orazio…
Ma già, lui non sa il latino…
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