lunedì 1 aprile 2013

Rimembranze (XVI)


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Si dice che i vecchi vivono di ricordi. E, come in tutte le cose che ‘si dicono’, c’è del vero in questo. Certo, l’anziano, spesso costretto a vita sedentaria, ha poche occasioni di esperire il mondo nell’azione concreta. Ma anche l’azione riflessa nella mente non è semplice ripetizione, ma scoperta di un nuovo insospettato, nascosto tra le pieghe del già noto. Il ricordo supera il ricordato aggiungendovi l’emozione del ricordare. La memoria attiva la mente tanto quanto e forse più che l’esperienza diretta. D’altronde anche il ricordo è un’esperienza, distinta e di tutt’altra natura da quella cui dovrebbe somigliare.

Alcuni postini or sono, uno dei curatori della serie ha rinvenuto e pubblicato in apertura una fotografia di Sergio Cafaro al pianoforte, scattata sessantadue anni fa. A Sergio mi legava già allora un’amicizia fondata, più ancora che sulla professione –Sergio era pianista e compositore– sulla comune passione per i coleotteri e la natura in genere. È quindi doppiamente naturale che io abbia di lui e delle innumerevoli ore trascorse insieme ricordi come di nessun altro. Non solo dell’amico e compagno di tante cacce più o meno fortunate, ma anche delle cacce cui non avevo partecipato di persona, ma delle quali mi aveva parlato con tale entusiasmo e vivezza di particolari, che le ascrivo oggi tra i miei più stabili ricordi. Alla sua morte, pochi anni fa, scrissi sulla nostra amicizia una poesiola –credo riportata anche su questo oblò (o in qualche altra parte)– che vorrebbe dare l’idea di un’amicizia che ci ha mantenuto giovani per un tempo assai più lungo del dovuto.

Ma la memoria ci conserva a noi stessi fin da quando articoliamo le prime parole. Anzi, sembra che la  memoria lunga sia più tenace di quella corta. In effetti anch’io sono particolarmente affezionato ad alcuni ricordi d’infanzia, frequentemente ricorrenti nel dormiveglia. Così la corsa di un treno a vapore per la Lüneburger Heide, di sera, tra boschi alternati a radure, su cui ogni tanto di intravedevano pascolare piccoli raggruppamenti di caprioli, mentre sopra le cime degli alberi volteggiavano gli uccelli in procinto di lasciarsi andare su un ramo per il riposo notturno, presto sostituite dall’oscura silhouette di un gufo o di un allocco. Oppure, pochi anni più tardi, sotto un tronco marcescente, l’improvviso brillio dell’elitra di un Carabus o di una Chrysolina; o anche –ma questo era molto prima– la vista, da dietro l’Alpe di Siusi, del Sassolungo, più alto della volta del cielo, il bel volo planato di una Limenitis populi sopra il torrente Gardone.

Che sarebbe la vita se la memoria non fingesse unità là dove non c’è che pluralità dispersa? Che sarebbe l’io se la memoria non lo costruisse pietruzza su pietruzza, alitandoci sopra il soffio dell’individualità?

1 commento:

walter ha detto...

Bella questa farfalla