martedì 27 novembre 2012
lunedì 26 novembre 2012
Hans Werner Henze (1926-2012)
H.W. Henze attorno 1970. [Erich Auerbach/Hulton Archive]
Nell'insieme posso comunque dire di non aver saputo apprezzare la musica di Henze come indubbiamente meritava. Ero impedito in questo dal mio temporaneo ottundimento mentale dovuto alla frequentazione delle avanguardie. Di ciò mi dispiaccio oggi anche in ragione della mia attuale miglior comprensione dell'evoluzione musicale successiva al tramonto delle avanguardie.
Considero a Henze uno dei più profilati musicisti del nostro tempo. Successivamente ho avuto anche ripetute occasioni di accostarmi a lui sia qui a Cantalupo che al suo Cantiere di Montepulciano, con il quale ho avuto il piacere di collaborare a più riprese, a metà degli anni Ottanta. Anche se i nostri due cammini, pur avendo delle rilevanti affinità politiche e progettuali, si sono tuttavia svolti su binari paralleli ma non coincidenti, osservo oggi, a cose fatte, una notevole convergenza nel considerare la musica non dall'alto di una cultura elitaria e tecnicamente riservata, bensì nel contatto tra essa e il fruitore. La differenza delle nostre posizioni sta in questo: che Henze ha impostato questo contatto sulla sua propria attività compositiva, raggiungendo risultati notevolissimi; per parte mia, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il mio contributo non ha riguardato tanto l'attività compositiva, quanto l'azione che da musicista ed essere pensante potevo svolgere in ambito didattico-formativo. In questo senso l'iniziativa di Henze a Montepulciano mostra qualche affinità con la mia qui a Cantalupo.
Henze mi ha offerto anche l'occasione di presentare quest'attività, svolta essenzialmente in ambito educativo, nel suo Cantiere. Nel seguito abbiamo avuto ancora sporadici contatti, che purtroppo non si sono sviluppati in un'effettiva collaborazione, come forse sarebbe stato utile ed auspicabile. Ho comunque seguito con estremo interesse la produzione musicale henziana, sempre più ammirato della sua straordinaria musicalità e sapienza compositiva. Avrei voluto frequentarlo maggiormente ma il diverso orientamento del nostro lavoro, pur nella convergenza politica, non mi lo ha permesso.
Non mi resta che dolermi della sua 'prematura' (anche se avvenuta a 86 anni) scomparsa e ricordarlo anche personalmente con affetto.
Convergenze oltre le grandi acque - dell' "empatia intellettuale"
Questa mattina abbiamo visto con piacere un articolo di un pensatore statunitense, Mathew Lee Anderson, che descrive posizioni straordinariamente simili a quelle dell'Ipotesi Metaculturale. Ecco il link al suo articolo "Empatia intellettuale" per coloro che siano interessati a leggerlo.
Che cosa è concreto?
Frammento del manoscritto dell'op. 101 di Beethoven
[477]
A questo punto, cioè
dopo il postino 476, si pone la domanda: è possibile una crescita solo mentale,
che non sia comprovata anche da un progresso materiale, dallo stile di vita? La
mente si è probabilmente evoluta sulla spinta dei problemi concreti che è stata
chiamata a risolvere; e per risolverli ha dovuto cominciare col farsi un’immagine
pluridimensionale dei parametri in gioco. Ha dovuto cioè procedere a un’analisi
che riproducesse al meglio la loro variabilità. Ha sviluppato per questo fine
una disciplina –la matematica– atta a mettere in corrispondenza biunivoca
sequenze di eventi reali con serie numeriche ottenute mediante operazioni
mentali condotte su oggetti reali.
Come si vede,
l’intreccio tra il reale e il mentale rende spesso indistinguibili i due campi
e li rende l’uno vicariante dell’altro. In molti casi risulta quindi ozioso chiedersi se
la tale o talaltra attività –per esempio la musica o la pittura– sia ‘astratta’
o ‘concreta’. I prodotti materiali sono in ogni caso concreti, ma lo sono anche
i relativi progetti? E nel caso della musica, che cosa è concreto: solo i suoni
emersi dalla sorgente –voce o strumento che sia– o la traccia magnetica su un
disco, o la serie numerica delle frequenze, o infine una serie di segni
grafici?
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domenica 25 novembre 2012
Sarebbe così se la via del progresso fosse una sola...
[476]
Se proibiamo a noi
stessi una crescita infinita, limitiamo cioè la nostra produzione al di sotto
di una certa soglia, non corriamo il rischio di atrofizzare la nostra stessa
capacità produttività facendoci regredire a stadi già superati? Sarebbe così se
la vita del progresso fosse una sola e la crescita si misurasse unicamente
sull’economia e sul progresso tecnologico. La storia non ci dimostra questo, e
forse è più affidabile in ciò che non
dice anziché in ciò che dice. Per molte migliaia di anni le uniche forze su cui
potevamo contare, oltre la nostra, erano quelle animali, sulle altre –il vento,
l’acqua– non c’era da fare troppo affidamento, spesso i danni che producevano
superavano i vantaggi. Sono sì e no un paio di secoli che abbiamo imparato a
servirci di altre fonti di energia. E da allora si sono affacciati seri
pericoli di sopravvivenza.
Tutt’altra cosa per
la crescita del pensiero, che non sembra sottoposto a limitazioni in quanto non
produce inquinamento materiale né altera sensibilmente l’ambiente, almeno fin
quando non viene utilizzato proprio a questo scopo. Poiché la caratteristica del
pensiero umano consiste essenzialmente nella riflessività metaculturale, basta
che gliela conserviamo e potremo, come per il passato, continuare indisturbati
e senza disturbare nella nostra crescita.
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sabato 24 novembre 2012
Il mito della crescita infinita
[475]
Il mito della
crescita infinita ha ossessionato il ‘potere’ in ogni tempo e luogo: Alessandro
Magno, Toma, Gengis Khan, Tamerlano e, in tempi più recenti, Napoleone, Hitler
ne hanno subito la nefasta influenza. Dico ‘nefasta’ non tanto per la fase
ascendente del progresso –nefasta anch’essa non per chi cresceva ma per coloro
a cui spese la crescita avveniva– quanto per l’inevitabile fase discendente, la
cui inevitabilità fu presto riconosciuta dagli uomini che tentarono invano di
opporsi non riuscendo ad altro che ad accelerare il percorso fino al suo esito
catastrofico. Oggi un tale esito non risparmierebbe nessuno: l’unica via per
evitarlo è non dare inizio al percorso stesso, rinunciare, una volta che si sia
raggiunto un accettabile standard di vita, a ogni ulteriore aumento di
ricchezza e di potere. Ma qual è questo ‘accettabile’ standard? Chiedetelo a un
africano e a uno statunitense, le risposte non saranno certo le stesse e, se
anche le risposte fossero ovunque modellate sullo standard statunitense,
sarebbe il nostro pianeta a non dirsi d’accordo. Anziché, quindi, proporsi
traguardi che sappiamo non raggiungibili per tutti, rinunciamo in partenza alla
crescita infinita e calcolando con precisione –siamo in grado di farlo– il
limite al quale attenerci per non incorrere nel pericolo di estinzione.
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martedì 20 novembre 2012
Mutamenti nell'aria
[NdR: redatto in luglio 2011; noti il lettore che i postini di Boris si stanno pubblicando 'in differita']
I mutamenti di stagione, anche politica, si sentono nell’aria. Molti piccoli indizi e anche qualcuno grande ci rendono avvertiti che qualcosa sta cambiando. Ma questo non basta perché il cambiamento avvenga per davvero. Occorre che ci sia qualcuno pronto a cogliere l’occasione. Può darsi che questa passi e per molto tempo non si ripresenti. Oggi per esempio l’indizio di cui si diceva al postino precedente, non ci avverte solo di una probabile fine dell’era Berlusconi, ma di un possibile declino di un’ideologia dominante da secoli, di cui il berlusconismo potrebbe costituire il punto critico. Sempre più insistenti di fanno le voci, oggi raccolte –vedremo poi con quanta convinzione– perfino del fondamentalismo cristiano, secondo cui per sopravvivere serve oggi un radicale mutamento ideologico, un nuovo ‘stile di vita’, un modello di sviluppo diverso dalla ‘crescita infinita’ cui abbiamo sacrificato tanto a lungo la nostra intelligenza. C’è oggi qualche parte della società disposta a revisionare i propri meccanismi culturali per aprire un periodo di sperimentazione su modelli alternativi che non pongano al primo posto lo sviluppo economico? A dire il vero, non saprei neppure dove cercarli questi modelli se non negli archivi di qualche antro di ricerca, come il Centro Metaculturale, troppo piccolo, però, per fornire indicazioni attendibili su scala sociopolitica. Non è improbabile tuttavia che di qui a qualche tempo l’esigenza di un cambiamento si faccia così presente da costringere di fatto anche le istituzioni a promuovere fasi di ricerca e sperimentazione analoghe a quelle percorse in piccolo da alcuni centri formativi negli anni Settanta-Ottanta. Non è detto che si arrivi agli stessi risultati. Non è neppure detto che ci si debba concentrare su uno specifico ambito disciplinare –allora facevamo prevalentemente la musica e la musicoterapia– ma oggi percorsi analoghi potrebbero essere tentati parallelamente in altri ambiti. Già allora la finalità ultima di quella sperimentazione, non era l’apprendimento disciplinare né l’apprendimento tout court, ma l’attivazione critica della mente.
[Nota dell'autore, oggi 24.11.2012] Non è che io sia stato particolarmente presciente; in realtà, alcune cose non cambiano MAI.
I mutamenti di stagione, anche politica, si sentono nell’aria. Molti piccoli indizi e anche qualcuno grande ci rendono avvertiti che qualcosa sta cambiando. Ma questo non basta perché il cambiamento avvenga per davvero. Occorre che ci sia qualcuno pronto a cogliere l’occasione. Può darsi che questa passi e per molto tempo non si ripresenti. Oggi per esempio l’indizio di cui si diceva al postino precedente, non ci avverte solo di una probabile fine dell’era Berlusconi, ma di un possibile declino di un’ideologia dominante da secoli, di cui il berlusconismo potrebbe costituire il punto critico. Sempre più insistenti di fanno le voci, oggi raccolte –vedremo poi con quanta convinzione– perfino del fondamentalismo cristiano, secondo cui per sopravvivere serve oggi un radicale mutamento ideologico, un nuovo ‘stile di vita’, un modello di sviluppo diverso dalla ‘crescita infinita’ cui abbiamo sacrificato tanto a lungo la nostra intelligenza. C’è oggi qualche parte della società disposta a revisionare i propri meccanismi culturali per aprire un periodo di sperimentazione su modelli alternativi che non pongano al primo posto lo sviluppo economico? A dire il vero, non saprei neppure dove cercarli questi modelli se non negli archivi di qualche antro di ricerca, come il Centro Metaculturale, troppo piccolo, però, per fornire indicazioni attendibili su scala sociopolitica. Non è improbabile tuttavia che di qui a qualche tempo l’esigenza di un cambiamento si faccia così presente da costringere di fatto anche le istituzioni a promuovere fasi di ricerca e sperimentazione analoghe a quelle percorse in piccolo da alcuni centri formativi negli anni Settanta-Ottanta. Non è detto che si arrivi agli stessi risultati. Non è neppure detto che ci si debba concentrare su uno specifico ambito disciplinare –allora facevamo prevalentemente la musica e la musicoterapia– ma oggi percorsi analoghi potrebbero essere tentati parallelamente in altri ambiti. Già allora la finalità ultima di quella sperimentazione, non era l’apprendimento disciplinare né l’apprendimento tout court, ma l’attivazione critica della mente.
[Nota dell'autore, oggi 24.11.2012] Non è che io sia stato particolarmente presciente; in realtà, alcune cose non cambiano MAI.
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lunedì 19 novembre 2012
Per la via di Damasco?
Olio su tela di Mazzola Girolamo Francesco, il Parmigianino (Kunsthistorisches Museum, Wien)
[473]
Oggi ho sentito in TV
alcune dichiarazioni di Benedetto XVI che sembrano trascritte da questi
postini. In particolare mi ha colpito un passaggio dove Benedetto XVI insiste
sulla revisione del nostro modello di sviluppo basato su una crescita economica
socialmente ed ecologicamente insostenibile perché lascia che i paesi ricchi
accrescano la loro ricchezza accordandosi alle spalle di quelli poveri nel
sottrargli materia prima e forza lavoro. Le conclusioni non sono in sé nuove;
nuovo è che le tragga un Papa, per giunta noto per le sue posizioni tutt’altro
che innovatrici. Che sia passato per la via di Damasco?
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lunedì 12 novembre 2012
Pensare con la propria testa
[472]
“Pensare con la
propria testa.”
È una massima cui IMC
ha dato da sempre il massimo valore, forse non del tutto meritato. Infatti non
è facile ricavarla per via diretta dalle definizioni di IMC. La sua ragion
d’essere sta piuttosto in una sopravvalutazione dell’individuo,
sopravvalutazione che dovrebbe compensare sia la frustrazione del ‘suddito’ sia
quella del ‘compagno’. L’indipendenza del giudizio, l’autonomia del pensiero, seppure
in molti casi auspicabili, solo in pochi sono realizzabili. E questo non tanto
per la tirannia della società quanto per la reificazione del concetto di autonomia. ‘Autonomo’ sarebbe chi si dà
da solo le regole di vita e di comportamento pur vivendo in un contesto che non
può concedergli per intero questa autonomia. Gli imenotteri sociali –api,
vespe, formiche– non la concedono affatto. Homo
sapiens come, prima di lui, altri mammiferi adiscono in varia misura a
compromessi che limitano la loro autonomia senza tuttavia negargliela del
tutto. Nella nostra specie lo spazio concesso al compromesso è massimo e noi
vaneggiamo che sia sconfinato e lo chiamiamo ‘libertà’.
“Pensare con la
propria testa”: sì, purché la propria testa tenga conto anche delle altre e non
pensi di potersi sostituire al loro insieme e forse neppure a una sola di esse.
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domenica 11 novembre 2012
L'Io cosmico
[471]
Il precedente postino
contiene un quindi che potrebbe essere surrettizio o almeno non del tutto
motivato. Qualcuno potrebbe addirittura mettere in dubbio che l’autonomia
individuale abbia come conseguenza l’autonomia della società. Fare un pensiero
troppo individualista porta piuttosto all’anarchia che alla coesione sociale.
Mette conto di riflettere per non incorrere nella trappola del solipsismo.
Anni fa ho scritto
una ‘parabola’ in difesa dell’egoismo, inteso però per cerchi che si allargano
progressivamente dall’io individuale all’io tribale, all’io specifico, all’io
biologico, all’io cosmico. Entro
questa scala, all’incirca tra l’io
tribale e l’io specifico, si
collocherebbe un io sociale,
interamente costruito da noi. Ognuno di questi cerchi acquista il suo senso
proprio dall’insieme di tutti gli altri. Anche l’autonomia individuale va
declinata entro questa scala e allora conviene percorrerla dal generale al
particolare, dal sociale all’individuale, derivando il tutto dall’io cosmico. In molti miti delle origini si
fa riferimento all’uovo cosmico. Non
è l’io, ma ‘uovo’, che in tedesco si pronuncia come ‘io’ in inglese, ambedue
lingue germaniche. Non vuol dir nulla, ma è divertente pensarci.
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sabato 10 novembre 2012
Un’entità sovra-individuale?
[470]
Parlare di ‘maturità’ dei
giovani di oggi è nient’altro che ipocrisia, almeno se a parlare sono io che di
generazioni ne ho viste parecchie. Non credo affatto in generale, a questa
‘maturità’, più di quanto ci abbia creduto in passato. Singolarmente posso dire
di aver incontrato solo teste pensanti, cui tuttavia la società raramente
chiedeva di farlo. Ricordo ancora gli anni del fascismo dove chi pensava era
considerato un disfattista perché uno solo pensava per tutti, e anche in
seguito, con l’avvento della democrazia, i delegati a pensare erano in pochi e
consumavano questa loro nobile facoltà negando a priori ciascuno quel che
affermava l’altro e accettando perfino l’autocontraddizione pur di prevalere.
Questo perché, come forse in ogni tempo, la parola è anzitutto strumento di
contesa e non di intesa. E la scuola?
La scuola ti insegnava a pensare, o meglio a
incanalare il pensiero entro solchi tracciati. E questo non è pensare ma
ripercorrere un pensiero già pensato. Certo, necessario, indispensabile forse,
per pensare oltre, ma tautologico se
è visto –e la scuola così lo vuole– come meta di un percorso i più rilevanti
della vita.
La società non sembra quindi
particolarmente sollecita nel promuovere la maturazione dei suoi giovani
membri. Anzi sembra piuttosto interessata a conservarli in uno stato di
permanente neotenia cosicché non disturbino il tranquillo travaso di ricchezze
da chi non ha a chi ha in abbondanza, e colpisce –a proposito della presunta maturità dei giovani– l’indifferenza,
per non dire incoscienza, con cui vanno incontro a un’immediata catastrofe di
cui sono corresponsabili, non per ciò che fanno, non per ciò che non fanno. Al primo posto di
quest’ultima categoria metterei la rinunzia all’autonomia della mente,
asservita ormai fin dalla prima infanzia ai sistemi pubblicitari, poi alle
mode, al pensiero eteroguidato, infine alle ideologie della crescita infinita,
del successo, del potere, per cui abbondano i modelli; falsi ma affini. Giuste
ma inutili le analisi che deresponsabilizzano gli individui attribuendo alla
società nel suo insieme e ai suoi modelli di cui tollera la diffusione la causa
del suo decadimento e dell’imminente, probabile rovina. Se lasceremo che ci
venga tolta la responsabilità personale anche del nostro futuro è come se
firmassimo tutti, ognuno per sé, la nostra condanna.
Non so se hanno ragione
coloro che vedono nella società un’entità sovra-individuale sulla quale non
possiamo nulla perché dominata dalla legge dei grandi numeri. Credo però che di
questa legge possiamo aver ragione, o meglio possiamo volgerla a nostro
vantaggio, se riusciamo a restituire all’individuo la pienezza della sua
autonomia e quindi alla società la pienezza della sua.
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venerdì 9 novembre 2012
Una maturità un poco malinconica e rinunciataria
[469]
Quel che mi stupisce è la
maturità con cui i giovani di oggi affrontano una crisi che si presenta come la
più grave del mondo moderno anche per le dimensioni che ha assunto fin
dall’inizio con il crollo dell’Unione Sovietica, il conflitto medio orientale,
l’avanzata tumultuosa delle economie asiatiche sui mercati internazionali. Se
delle iniziative si sono avute –e se ne sono avute in quantità, anche in campo
politico– non è stata l’area europea a produrle, e neppure quella
nord-americana, nonostante i generosi sforzi di Obama. La gioventù europea
sembra aver messo la testa a posto per non buttarsi in nuove avventure che, con
i mezzi offensivi e difensivi di cui oggi l’umanità dispone, ci porterebbero
molto probabilmente a una catastrofe senza scampo. È questa la ragione per cui
ho parlato, poche righe più su, della maturità della gioventù odierna. Una
maturità, a dire il vero, un poco malinconica e rinunciataria perché ha deposto
inventiva e coraggio, e che invece, unita ad essi e soprattutto all’impeto dei
paesi emergenti, potrebbe creare per il nostro pianeta e per i suoi abitanti le
condizioni per un’equilibrata coesistenza.
[Meglio leggere anche il
prossimo postino]
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