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Il mito della
crescita infinita ha ossessionato il ‘potere’ in ogni tempo e luogo: Alessandro
Magno, Toma, Gengis Khan, Tamerlano e, in tempi più recenti, Napoleone, Hitler
ne hanno subito la nefasta influenza. Dico ‘nefasta’ non tanto per la fase
ascendente del progresso –nefasta anch’essa non per chi cresceva ma per coloro
a cui spese la crescita avveniva– quanto per l’inevitabile fase discendente, la
cui inevitabilità fu presto riconosciuta dagli uomini che tentarono invano di
opporsi non riuscendo ad altro che ad accelerare il percorso fino al suo esito
catastrofico. Oggi un tale esito non risparmierebbe nessuno: l’unica via per
evitarlo è non dare inizio al percorso stesso, rinunciare, una volta che si sia
raggiunto un accettabile standard di vita, a ogni ulteriore aumento di
ricchezza e di potere. Ma qual è questo ‘accettabile’ standard? Chiedetelo a un
africano e a uno statunitense, le risposte non saranno certo le stesse e, se
anche le risposte fossero ovunque modellate sullo standard statunitense,
sarebbe il nostro pianeta a non dirsi d’accordo. Anziché, quindi, proporsi
traguardi che sappiamo non raggiungibili per tutti, rinunciamo in partenza alla
crescita infinita e calcolando con precisione –siamo in grado di farlo– il
limite al quale attenerci per non incorrere nel pericolo di estinzione.
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