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Parlare di ‘maturità’ dei
giovani di oggi è nient’altro che ipocrisia, almeno se a parlare sono io che di
generazioni ne ho viste parecchie. Non credo affatto in generale, a questa
‘maturità’, più di quanto ci abbia creduto in passato. Singolarmente posso dire
di aver incontrato solo teste pensanti, cui tuttavia la società raramente
chiedeva di farlo. Ricordo ancora gli anni del fascismo dove chi pensava era
considerato un disfattista perché uno solo pensava per tutti, e anche in
seguito, con l’avvento della democrazia, i delegati a pensare erano in pochi e
consumavano questa loro nobile facoltà negando a priori ciascuno quel che
affermava l’altro e accettando perfino l’autocontraddizione pur di prevalere.
Questo perché, come forse in ogni tempo, la parola è anzitutto strumento di
contesa e non di intesa. E la scuola?
La scuola ti insegnava a pensare, o meglio a
incanalare il pensiero entro solchi tracciati. E questo non è pensare ma
ripercorrere un pensiero già pensato. Certo, necessario, indispensabile forse,
per pensare oltre, ma tautologico se
è visto –e la scuola così lo vuole– come meta di un percorso i più rilevanti
della vita.
La società non sembra quindi
particolarmente sollecita nel promuovere la maturazione dei suoi giovani
membri. Anzi sembra piuttosto interessata a conservarli in uno stato di
permanente neotenia cosicché non disturbino il tranquillo travaso di ricchezze
da chi non ha a chi ha in abbondanza, e colpisce –a proposito della presunta maturità dei giovani– l’indifferenza,
per non dire incoscienza, con cui vanno incontro a un’immediata catastrofe di
cui sono corresponsabili, non per ciò che fanno, non per ciò che non fanno. Al primo posto di
quest’ultima categoria metterei la rinunzia all’autonomia della mente,
asservita ormai fin dalla prima infanzia ai sistemi pubblicitari, poi alle
mode, al pensiero eteroguidato, infine alle ideologie della crescita infinita,
del successo, del potere, per cui abbondano i modelli; falsi ma affini. Giuste
ma inutili le analisi che deresponsabilizzano gli individui attribuendo alla
società nel suo insieme e ai suoi modelli di cui tollera la diffusione la causa
del suo decadimento e dell’imminente, probabile rovina. Se lasceremo che ci
venga tolta la responsabilità personale anche del nostro futuro è come se
firmassimo tutti, ognuno per sé, la nostra condanna.
Non so se hanno ragione
coloro che vedono nella società un’entità sovra-individuale sulla quale non
possiamo nulla perché dominata dalla legge dei grandi numeri. Credo però che di
questa legge possiamo aver ragione, o meglio possiamo volgerla a nostro
vantaggio, se riusciamo a restituire all’individuo la pienezza della sua
autonomia e quindi alla società la pienezza della sua.
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