venerdì 27 gennaio 2012

L'insidiosa melma del fiume

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Mi sento in dovere di portare a termine il racconto dell’episodio autobiografico del bruco di Acherontia incontrato una quindicina di anni fa sulle rive melmose del Tevere, racconto affondato poi nella melma dei ricordi come stavamo affondando allora, il bruco ed io, nell’insidiosa melma del fiume.

Lui aveva fermato la sua corsa sulla mano che l’aveva catturato, mentre io cercavo di liberare le mie gambe dalla molle fanghiglia che aveva catturato me. Ero capitato in un deposito di sabbie mobili lasciate dal fiume, che evidentemente era stufo di portarsele appresso fino al mare, e aveva pensato di liberarsi con lo stesso sistema anche di me. Io e il bruco, però, non eravamo d’accordo e protestavamo, lui riprendendo vigorosamente la sua passeggiata, io affondando sempre più nel fango. Frattanto sopra di noi, lungo le sponde alte del fiume, passava un gregge di pecore, apparentemente senza pastore ma in compenso con un buon numero di pastori maremmani, rassicuranti forse per le pecore, certo non per noi. Fortunatamente non ci degnarono neppure di uno sguardo. Io comunque cominciai a preoccuparmi, anche in considerazione del sole che calava inesorabilmente. Il mio amico, anziché addormentarsi, si faceva sempre più vispo e, per non perderlo, non potevo che farlo passare da una mano all’altra, mentre le gambe erano ormai del tutto immobilizzate. Provai a ragionare: aumentando la superficie portante avrei potuto galleggiare sul fango e forse raggiungere alcuni ciuffi di erbe acquatiche dell’aspetto tenace e resistente, cui aggrapparmi e tirare…

Piegai il corpo a squadra ed effettivamente le cose andarono come previsto, nonostante l’amico mi remasse contro, nel senso che rendeva più difficile ogni mia mossa. Lasciai al fiume scarpa e calzino sinistri, in compenso il fiume mi riempì di fango fino ai capelli.

Eravamo sani e salvi, il bruco ed io. Raggiungemmo la macchina, che provvidi a insozzare come non mai. Qui trovai una scatola per l’Acherontia, che, alcuni giorni dopo s’incrisalidò per poi sfarfallare la primavera successiva e volarsene via a saccheggiare la prima arnia incontrata. Che ci facesse il suo bruco, divoratore di solanacee, sulle rive melmose del Tevere, proprio non lo so.

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