Nel 1957 precisamente con la cantata
(in origine chiamata Lied) per
soprano, baritono coro e orchestra Der Gott und die Bajadere [1]
su testo di Goethe, si chiude la mia prima fase di compositore musicale,
interamente nel segno del neoclassicismo stravisnkiano con sensibili imprestiti
hindemithiani.
Lo splendido testo mi aveva
letteralmente stregato, infondendomi un entusiasmo compositivo mai più
esperimentato nel linguaggio dei suoni – e ritrovato forse solo più di
quarant’anni dopo nella stesura verbale di IMC, un’ipotesi per la sopravvivenza. [2]
Non so, ovviamente, se a quell’entusiasmo compositivo abbia corrisposto un
risultato altrettanto entusiasmante, ma la cosa mi lascia abbastanza
disinteressato: quell’entusiasmo ho avuto la fortuna di trovarlo, e che si può
volere di più? La prima esecuzione ebbe luogo a Torino, con Magda Laszlo
meravigliosa interprete della bambina-bayadere, e dal basso James Loomis, narratore-Mahadöh, per l’ottima direzione di
Ettore Gracis e con la partecipata accoglienza del pubblico. Nel mezzo secolo
seguente non mi è più capitato di scrivere musica con maggior convinzione,
merito ovviamente dei miei modelli, di Goethe e dell’aproblematico linguaggio
tonale da me scelto. A proposito del quale l’attributo ‘aproblematico’ ha
tuttavia bisogno di una correzione. In quegli anni – i primi tentativi
risalgono a prima del 1953 – avevo infatti coltivato, come molti colleghi,
l’utopia di coniugare l’asprezza della tecnica seriale (dodecafonica
soprattutto) con la piacevolezza della tonalità così da soddisfare ambedue le
esigenze compositive cui tenevo: il rigore strutturale e il desiderio di conservare
alla musica la sua funzione comunicativa. Ne era nata quella che molti anni
dopo avrei chiamato ‘modulazione culturale’ tra due linguaggi pressoché
incompatibili. Per parte mia intravedevo questa possibilità di modulazione
soprattutto in una gestione semplice ma razionale del parametro durata a tutti
i livelli: notali, fraseologici, formali. Ricordo che lavoravo col righello a
grandezze numeriche, ma penso che nessuno se ne sia accorto. Allora perché? Per
‘sgravio di coscienza’ avrebbe detto Mann. In realtà perché mi piaceva così.
[1] CBP-IIa:1, Der Gott und die Bajadere, cantata per baritono, soprano, coro (soprani, alti, tenori, bassi), due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro trombe e archi. 15.IV.57. Testo di J. W. Goethe. Suvini Zerboni 1966.
[2] Vedi [10a] Libro I – Esposizione di IMC e di alcuni suoi antecedenti e conseguenti (1999), appartenente al Volume III L’Ipotesi Metaculturale – Un’ipotesi per la composizione delle diversità, ossia per la sopravvivenza nelle Indagini metaculturali.
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