lunedì 27 febbraio 2012

1. L’individuo come ‘ambiente di sé stesso’


Fotografia di C. Morlock
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Non può una cosa essere se stessa e contemporaneamente il proprio ambiente. Lo nega già la parola. Ambiente è tutto ciò che ci sta attorno e quindi non siamo noi; il contenente non è il contentuto, almeno per quanto siamo abituati a pensare. Che cosa quindi potrebbe voler dire un’espressione del tipo di quella che fa da titolo a questo paragrafo?

In un certo senso essa predice un’impossibile identità. E, se invece fosse possibile? Se i due termini potessero, in determinate condizioni, designare un medesimo oggetto, riferito a due sistemi osservativi diversi?

Supponiamo per esempio che a un certo tempo t, individuo e ambiente siano indistinguibili e che solo in un tempo t' risultino separati. Se non viene precisato il tempo dell’osservazione è impossibile affermare nulla sulla distinguibilità tra individuo e ambiente. Esistono casi del genere?

Sembra che ancora per qualche tempo dalla nascita il bambino non distingua tra sé e il mondo: se gli si tocca un piede, lui non reagisce perché, pur avvertendo il contatto, non sa che il piede è suo e neppure che è sua la sensazione del contatto.

Anche una Saturnia (grossa farfalla notturna) se trafitta di giorno con una spilla, non dà segno di ricevimento perché non le serve darlo. Una puntura di spillo è avento talmente improbabile per lei, che non valeva la pena sviluppare un sistema d’allarme per esso. La stessa puntura, praticata sul bruco della Saturnia, produrrebbe una contrazione violenta che manderebbe a gambe all’aria qualsiasi insetto gliela infliggesse. Così il bambino, qualche settimana più tardi, guarderebbe se non altro con curiosità la mano che gli ha toccato il piede. E, dopo qualche altro giorno, guarderebbe anche negli occhi le persone: è ormai funzionante la catena causale ed è avviata la separazione tra l’individuo e il mondo. Come è avvenuto questo distacco?

Non so, posso soltanto cercare delle analogie. Così la duplicazione cellulare e, più complessa, quella degli individui, per esempio la germinazione. È come se i programmi che presiedono a questi eventi avessero “spazializzato” il tempo, misurandolo come se fosse tutto lì davanti a noi e noi potessimo ritagliarne un pezzo a nostro piacimento. Meglio ancora funziona l’analogia con il decadimento della radioattività. Anche se in questo caso le misurazioni non sono individuali ma statistiche, la loro costanza farebbe pensare più a qualcosa che è e resta che a qualcosa di soggetto all’incertezza del divenire. Tutto ciò che è siamo meglio disposti a consderarlo spazialmente, mentre ciò che diviene lo assegniamo al domino del tempo. È più convincente una misurazione di lunghezza su un bambino morto che su un bambino vivo.

Sia come sia, a un certo punto il distacco avviene e scatta pure il conteggio: non più uno ma due. La matematica dipende dalla nostra capacità di separare, di distinguere. Se fossimo rimasti al modello parmenideo del mondo, εν και τον, non avremmo bisogno né del numero né del tempo. Il numero avrebbe a che fare più con il tempo che con la pluralità? Quale tempo? Quello spazializzato del numero (ma di cui abbiamo difficoltà a definire l’unità) o quello pensato come continuo e infinito (come nel calcolo infinitesimale)?

Tutte domande a cui non so rispondere. E allora, tanto vale non domandare.

Siamo così faticosamente arrivati a separare l’individuo dall’ambiente. Non ha senso però, parlare di ‘ambiente’ in senso assoluto, senza specificare a chi intendiamo riferirlo. A riprova di quanto sia difficile separare i concetti di ‘individuo’ e ‘ambiente’. Compiuto questo difficile passo, ci attende ora il suo contrario: considerare l’individuo come “ambiente di se stesso”. Anzitutto, perché tentarlo questo passo?

Per completare il passaggio dall’ambiente all’IO che lo crea.

Non è sufficiente l’individuo, che, pur vivendo nell’ambiente non lo riconosce come tale (gliene manca la parola) e si limita a viverci dentro, fuggendolo se qualcosa cambia o cambiando qualche cosa di se stesso –se ci riesce– per adattarvisi.

Occorre che la separazione individuo/ambiente si rifletta in una condizione, interna all’individuo stesso, che chiameremo coscienza, consapevolezza. Ed è a questo punto che si verifica l’urgenza che rende possibile il pieno riconoscimento dell’avvenuta separazione.

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