lunedì 20 aprile 2009

Ma la utilizziamo, quest'intelligenza?

Sentiamo quello che Boris pubblicava sull'Unità trentun'anni or sono ...



L’articolo di Zorzoli, pubblicato sull’Unità del 15 giugno [1978] con il titolo "L’intelligenza che utilizziamo", offre buoni motivi di riflessione non solo a chi si occupa di ricerca e programmazione scientifica, ma anche a tutti coloro che lavorano dentro l’attuale crisi culturale e sociale, attenti agli orientamenti evolutivi che in essa si vanno delineando. “L’utilizzazione ottimale di tutta l’intelligenza disponibile” è uno degli obiettivi cui cominciano a tendere le metodologie di ricerca, di programmazione e conseguentemente le didattiche di base che a quelle devono fornire il necessario sostegno. Leggere di più ...

Questo non per acquetare la cattiva coscienza del privilegio con populistica elargizione di cultura e di strumenti culturali né per un astratto ossequio all’idea –all’ideologia– democratica, ma per una spinta trasformazionale inerente allo stesso sistema in cui viviamo e di cui –ci piaccia o meno– siamo parte. Non la benevola disponibilità degli uomini di scienza sta oggi inducendo il “nuovo sviluppo” di cui parla Zorzoli, ma la stessa struttura dei problemi sul tappeto, la loro interna articolazione sociale e il concorso dì competenze che essi reclamano. Scrive Zorzoli che la “meritoria funzione di supplenza” –esercitata dallo scienziato, ma si potrebbe dire dall’intellettuale in genere– “non basta più”; ciò che oggi appare indispensabile è il “coinvolgimento, fin dal momento della definizione degli obiettivi, non solo del mondo scientifico ma anche dei potenziali committenti ed utilizzatori dei prodotti della ricerca stessa (imprenditori, lavoratori e loro organizzazioni, regioni, enti locali ecc.)”, giacché “non esiste un ‘prima’ e un ‘poi’, la soluzione ottimale consistendo nella contemporanea e continua interazione e confronto fra scelte programmatiche nazionali ed elaborazioni dì domanda ed offerta di ricerca nelle sedi specifiche (tecniche, economiche, sociali, istituzionali)”.

Il discorso di Zorzoli, che in qualche modo implica una revisione dei tradizionali ruoli fondati su specifiche competenze, appare accettabile senza grossi traumi per il lettore medio come per lo specialista di un qualche settore produttivo dell"industria, salvo poi scontrarsi con ovvie resistenze nel mondo imprenditoriale e del privilegio, p.es. universitario. Proviamo tuttavia a trasferirlo in un ambito assai diverso, non direttamente legato a fatti economici e per tradizione inteso come “sovrastrutturale”, cioè solo mediatamente partecipe delle trasformazioni sociali. Proviamo a trasferirlo nell’ambito della cultura, patrimonio ‘spirituale’ dell’individuo e della collettività, sede elettiva (anzi ‘eletta’) di processi di rispecchiamento –di ‘sublimazione’– del reale. Prendiamo ad esempio la musica: quanti operatori del settore, quanti musicisti sono oggi disposti, non si dice a deporre ma solo a verificare nel sociale ima delega di rappresentatività che non si sa bene quando e come gli sia stata conferita? Si adducono a difesa di questa rappresentatività le peculiarità tecniche, l’alta specializzazione del discorso musicale, come se tecnica e specializzazione non si siano sviluppati proprio in funzione della rappresentatività o privilegio, a delineare una figura quasi magica di musicista, unico depositario del simbolo musicale e dei suoi modi di organizzazione.

Ma la scienza nei suoi vari rami –dalla fisica alla biologia alle attuali discipline orizzontali (semiotica, cibernetica, teoria dei sistemi)– è forse meno specializzata, meno tecnicamente complessa della musica? Eppure la pressione determinata dall’esigenza di una programmazione a largo concorso di competenze –utilizzante cioè tutti i cervelli disponibili– rende oggi plausibili ipotesi come quella espressa da Zorzoli. L’autogestione della scienza non è più un modello di sviluppo attendibile, così come non lo è l’autogestione dì un qualsiasi settore della cultura, musica compresa. Ma le ipotesi oggi emergenti, fondate sul coinvolgimento, richiedono, per diventare concreti modelli alternativi, una consapevolezza culturale di base non più compatibile con l’immagine –marxianamente classica– di una cultura sovrastrutturale, riflettente (caratteristica probabilmente soltanto della fase matura dell’era borghese-industriale). Esperimenti condotti in varie parti del mondo industrializzato rispondono positivamente alle ipotesi leggibili nelle richieste di partecipazione che la società non si stanca di avanzare a tutti i livelli. Le stesse ricerche di semiotica musicale, addirittura di tecnica compositiva, non sono più attuabili come pura attività di laboratorio, ma reclamano, in connessione con quella, l’utilizzazione sul campo di tutte le capacità analitiche e organizzative di tutte le intelligenze –e sono in numero sempre crescente– che vorranno rendersi disponibili.

In un modello di società che subordina al discorso economico tutti gli altri con vario grado di essenzialità, l’autogestione dei singoli settori della cultura può ancora avere un senso, soprattutto se serve di copertura a chi gestisce il discorso principale; in un modello diverso, fondato sull’integrazione organica ed “ecologica” di tutti i sistemi relazionali e comunicazionali che la società istituisce in sé stessa e con l’ambiente, in un tale modello anche la cultura non potrà che raccordare i suoi più alti livelli di competenza con la base (base analitica e sociale a un tempo) e su questa fondare adeguate metodologie di intervento e di scambio informativo. Il problema è, al solito, politico, un problema su cui si registrano pericolosi ritardi, ma che ancora siamo in tempo ad affrontare dovunque si manifesti, a cominciare dalla scuola.
Raccolto in "Per una pianificazione culturale del territorio", pubblicato dal Gruppo Ricerca Culturale di base Università e Territorio", pp. 91-93, Roma 1978.

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