Una realizzazione di Serghei Pakhomoff
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Voglio ritornare sul
tema Casa della Pace Sabina e proprio
sul suo nome che, come già detto, non amo particolarmente perché mi suona
propagandistico, generico, troppo condivisibile per essere informativo.
Cercherò comunque di ricavarne qualche considerazione utile alla sua
realizzazione.
La parola ‘pace’, al
di là di essere troppo inflazionata e abusata presso tutte le culture (anche
quando le reali intenzioni di chi la usa sono tutt’altre) conserva, pur se
intesa onestamente, un retrogusto di ipocrisia assai difficile da estirpare. Si
pensi al detto “Si vis pacem, para bellum”,
dove ciò cui si mira è appunto la guerra e la pace si accetta solo a certe
condizioni.
La limitazione
spaziale espressa dalla parola ‘casa’ ha anch’essa sapore commerciale (‘Casa
della moto’, ‘Casa degli spaghetti’) che fa della pace un prodotto da
reclamizzare. Forse un poco maldestra per posizione (‘Sabina’ va riferita a
‘casa’ o a ‘pace’?), questa precisazione fornisce nondimeno un’indicazione
metodologica: dal generale al particolare, dal generico allo specifico.
Importante allora
sarebbe raggiungere il particolare, cioè l’individuo, ma attraverso una
traiettoria che comprenda la famiglia, la scuola, la società… Il rapporto della
pace con ognuna di queste realtà richiede un attento lavoro di analisi, che
tuttavia si perde nella genericità del concetto di ‘pace’. Il lavoro svolto in
tanti anni dal Centro Metaculturale
ha tentato di chiarire per quanto possibile appunto questi rapporti, invero più
sul piano pratico che su quello teorico. Anche questo tuttavia è stato indagato
portando alle riflessioni sintetizzate poi in IMC. Questa ipotesi
epistemologica sarebbe tuttavia ben poca cosa se non fosse in grado di tradursi
sul piano metodologico e di qui su concreti modelli di convivenza civile, di
formazione, di comportamento, che sostanzino di operatività l’astratto concetto
di PACE.
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