mercoledì 10 gennaio 2018

Tratta LI.1 (La sestina ipermetra) - Una possibile lettura politica della sonata per pianoforte op. 111 di Ludwig van Beethoven


[Non si dice che sia la lettura più giusta – e poi, quale sarebbe la più giusta? –. Ma solo che sia possibile’, e questo ritengo di poterlo dimostrare facendola. Molti inverdiranno al solo pensiero, soprattutto in considerazione dell’Arietta, ma è proprio su questa che intendo basarmi per la mia dimostrazione, che – ripeto – riguarda la fattibilità, non la giustezza dell’analisi.

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L’op. 111è l’ultima delle trentadue Sonate per pianoforte del loro Autore, non l’ultima delle sue opere per questo strumento. La seguono, se non altro, le Trentatrè variazioni sopra un valzer di Diabelli op. 120, e due raccolte di Bagatelle op. 119 e op. 126. Ma la forma principe del pianismo classico-romantico, che tale resterà anche per buona metà del Novecento, e la sonata, che vedrà i compositori impegnati al massimo grado nonostante la prepotente avanzata di altre forme, più in sintonia con le esigenze espressive piuttosto che costruttive dall’Ottocento. Molto prima che la Sonata avesse terminato la sua parabola culturale, ci fu chi le diede l’estremo addio dal suo stesso interno, almeno secondo l’opinione espressa da Thomas Mann nel Doktor Faustus e risalente a una fondamentale analisi di Theodor Wiesengrund Adorno. La lettura dell’op. 111 come non plus ultra della forma sonata conserva a mio parere la sua piena validità, ovviamente non cronologica, ma simbolica. Dopo di lei non conosco altra sonata che dichiari con altrettanta perentorietà quel non plus ultra di cui parlano Adorno e Mann.

Ora però a questa lettura, indubbiamente affascinante e oltremodo convincente, vorrei sovrapporre un’altra, non certo per sostituirsi ad essa, ma per mostrare la polisemanticità ricavabile da un testo musicale, polisemanticità probabilmente inestinguibile dal linguaggio verbale ma che senza di questo resterebbe nascosta tra i ben più accattivanti suoni del discorso musicale.]

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