[Non si dice che sia la lettura più
giusta – e poi, quale sarebbe la più
giusta? –. Ma solo che sia possibile’, e questo ritengo di poterlo
dimostrare facendola. Molti inverdiranno al solo pensiero, soprattutto in
considerazione dell’Arietta, ma è proprio su questa che intendo basarmi per la
mia dimostrazione, che – ripeto – riguarda la fattibilità, non la giustezza
dell’analisi.
_ _ _ _ _
L’op.
111è l’ultima delle trentadue Sonate per
pianoforte del loro Autore, non l’ultima delle sue opere per questo
strumento. La seguono, se non altro, le Trentatrè
variazioni sopra un valzer di Diabelli op. 120, e due raccolte di Bagatelle
op. 119 e op. 126. Ma la forma principe del pianismo classico-romantico, che
tale resterà anche per buona metà del Novecento, e la sonata, che vedrà i
compositori impegnati al massimo grado nonostante la prepotente avanzata di
altre forme, più in sintonia con le esigenze espressive piuttosto che
costruttive dall’Ottocento. Molto prima che la Sonata avesse terminato la sua parabola culturale, ci fu chi le
diede l’estremo addio dal suo stesso interno, almeno secondo l’opinione
espressa da Thomas Mann nel Doktor
Faustus e risalente a una fondamentale analisi di Theodor Wiesengrund
Adorno. La lettura dell’op. 111 come non plus ultra della forma sonata conserva a mio parere la sua
piena validità, ovviamente non cronologica, ma simbolica. Dopo di lei non
conosco altra sonata che dichiari con altrettanta perentorietà quel non plus ultra di cui parlano Adorno e
Mann.
Ora però a questa lettura,
indubbiamente affascinante e oltremodo convincente, vorrei sovrapporre
un’altra, non certo per sostituirsi ad essa, ma per mostrare la polisemanticità
ricavabile da un testo musicale, polisemanticità probabilmente inestinguibile
dal linguaggio verbale ma che senza di questo resterebbe nascosta tra i ben più
accattivanti suoni del discorso musicale.]
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