lunedì 28 maggio 2012

Il Mito della Caverna



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L’uomo ha probabilmente sempre dubitato della veridicità dei dati sensoriali. Ma difficilmente ha rinunciato al ‘vero’ come concetto. Eppure sarebbe stata la soluzione più semplice: senza il ‘vero’, anche il dubbio non avrebbe luogo, e così l’inganno, l’errore, concetti però che ci sono necessarie quanto e più del ‘vero’. E allora, manteniamoli tutti, ma solo perché ci servono, togliendogli ogni spessore metafisico, ideologico.

Nel VII libro di La Repubblica Platone descrive il Mito della Caverna. Non so se ne sia lui l’inventore, ma ritengo probabile che, almeno nelle sue linee essenziali, esso gli preesistesse. Un gruppo di uomini è costretto, fin dalla nascita, a fissare una parete della caverna in cui è rinchiuso, parete sulla quale vengono proiettate, con l’aiuto di una sorgente luminosa –un fuoco– posta dietro agli spettatori, le ombre di oggetti, animati o no. L’analogia con la lanterna magica, col teatro di ombre e soprattutto con il cinema è evidente. Per gli spettatori, incatenati ai loro posti, l’unica ‘realtà’ di cui abbiano esperienza è appunto il gioco delle ombre sul muro. È, per Platone, il primo grado di conoscenza, la conoscenza sensibile.
Uno dei prigionieri si libera e scopre gli altri gradi: la conoscenza razionale, causale, infine la contemplazione intuitiva del ‘vero’ ideale, cioè dell’idea di cui la ragione può fornirci solo una copia. Le immagini della caverna non sono allora che una ‘copia della copia’, destituite di un fondamento ontologico e quindi inservibili per il filosofo. La strada verso la vera conoscenza è quindi una salita che sta a lui, al filosofo, di percorrere per poi illuminare, coloro che non l’hanno percorsa, di una luce ‘vera’.
Questa volta l’analogia è con le filosofie orientali, il buddismo in primo luogo, ma, come prima, non posso che dichiarare la mia ignoranza su eventuali fonti asiatiche di Platone. La mia riesposizione del Mito della Caverna non soddisferà certo un esperto di filosofia greca. Non è comunque è lui che rivolgo questo postino, ma a lettori come me, non più che orecchianti dell’argomento. Osservo però –nella mia riesposizione, non nell’originale– delle forzature ideologiche che mi lasciano dubbioso. (Evidentemente anch’io, come tutti, non riesco a staccarmi del tutto dall’ideologia della verità.)


A quanto detto prima avrei da obiettare:
·          Perché il prigioniero che si è liberato si volge indietro? Forse perché sta già dubitando di ciò che gli sta davanti. E perché dubiterebbe, se non ha mai visto altro?
·         Il grado intermedio della conoscenza ‘razionale’ ha come presupposto la razionalità del reale, che cioè la realtà sia afferrabile dalla ragione, cosa che, per essere credibile, avrebbe bisogno di un garante esterno, non è implicato nel processo conoscitivo.
·         Il grado ultimo –l’intuizione– presuppone per così dire, sé stessa. Perché ci sarebbe concessa, se agli altri animali non è riconosciuto neppure il diritto alla conoscenza razionale? Non potrebbe essere che la ragione costruisce di sua iniziativa questa graduatoria per inserirvi poi, al grado che più le conviene, il proprio nome?
·         Perché la luce che proviene dalla filosofia dovrebbe essere più ‘veritiera’ di quella proveniente dalla sorgente?
·         Nel racconto platonico la parola di chi possiede la verità ultima non viene ascoltata: gli uomini preferiscono attenersi alla verità sensibile. E perché non dovrebbero? Sarebbe come se non dovessimo dare piena fiducia a quanto ci dicono i mass media.


Perché: non dovremmo?

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