venerdì 31 agosto 2012

... diritto di nascita ad ‘avere’...


[433]
La situazione economica è quella che è, ed è profondamente ingiusto attribuirne la responsabilità a questa o quella persona o classe sociale o forma di governo. I meccanismi che determinano queste situazioni sono fuori della portata del singolo e dei gruppi umani, e hanno una dimensione statistica più che puntuale. Sottostanno alle leggi dei grandi numeri e queste le possiamo tutt’al più conoscere, non modificare.
Non mi meraviglierei se qualche difensore dei grandi numeri –nel portafoglio di pochi– adduca argomenti del genere per due ragioni della forma del mondo. Non c’è nulla di ineluttabile nella sperequazione che costringe alla povertà una così grande parte della popolazione mondiale, nessuna legge matematica che giustifichi un tale stato di fatto. C’è solo l’avidità di singoli individui e il suo contagio, esteso a interi stati sociali, convinti del diritto di nascita ad ‘avere’ senza la contropartita del ‘dare’. Credevamo che col tramonto del feudalesimo fosse tramontato anche quel tipo di distribuzione della ricchezza, tanto più che, con il progredire delle tecniche da sfruttamento a produzione, l’emergente borghesia avrebbe potuto eliminare fame e povertà senza pregiudizio per il proprio stato economico. Le molte crisi ricorrenti, i profondi squilibri economici che è la permanente rincorsa ad avere ha prodotto all’interno della nostra specie e all’intero mondo dei viventi ci stesse portando a rovina senza che noi, potendo, facciamo nulla per evitarla. La scandalosa e infame ricchezza che alcuni addirittura sventolano sotto il naso di chi non ha nulla, la stupidità indotta in coloro che li considerano modelli da evitare a scapito di altri nullatenenti, la devastante riproposizione dello stesso rapporto tutto-niente a livello di intere popolazioni, infine l’ascesa tumultuosa e inarrestabile di altre popolazioni, analoga al ‘successo’ dell’imprenditore più abile sulla concorrenza: tutto questo non può più essere e sappiamo bene il perché. Non può tuttavia scomparire da un giorno all’altro in una fornace atomica. La decostruzione non dovrà quindi che lenta e graduale, sostituita punto per punto da altri modelli di convivenza planetaria.

giovedì 30 agosto 2012

Volontariato


[432]
In una trasmissione televisiva –ma non è importante quale, visto che l’argomento è sempre all’ordine del giorno– si discuteva dell’odierna situazione lavorativa con migliaia di disoccupati, migliaia di cassintegrati, altre migliaia in attesa di licenziamento. Unica luce in tanta oscurità, il volontariato che in Italia sembra funzionare benissimo, anche perché fortemente sostenuto dalla chiesa e dalla carità cristiana in genere.
Poiché anche noi, Paola ed io, svolgiamo da vari anni un’attività formativa non remunerata, la mia prima reazione è stata positiva: ecco chi alla lunga ci tirerà fuori dal tunnel della disoccupazione! Poi ho riflettuto – qualcuno mi ha fatto riflettere. Il volontariato va nella stessa direzione di coloro che il lavoro non lo pagano ma lo sfruttano, è più dannoso che benefico. Infatti:
-        toglie le castagne dal fuoco a chi ha l’effettiva responsabilità della situazione di dissesto economico
-        lega a se i beneficiati e li tiene sotto ricatto morale
-        sottovaluta il lavoro a fronte del capitale
-        favorisce il lavoro non pagato e, così facendo contrasta un naturale diritto del lavoratore
-        sovverte l’equilibrio sociale.
Diverso è il caso, come quello mio e di Paola, in cui il lavoro offerto gratuitamente
-        è compensato da una remunerazione procapite ad altro titolo e sufficiente al fabbisogno familiare
-        è svolto a fini di ricerca e sperimentazione sociale
-        non costituisce in alcun modo un rapporto del tipo carità-gratitudine
-        tutt’al più risponde a un’esigenza di giustizia sociale.

mercoledì 29 agosto 2012

Molti punti di contatto



Una 'parruca di acqua' fotografata da Tim Tadder
[431]
Perché ho ripreso nei postini scorsi cose già dette nei passati decenni, e con molta maggiore nettezza?
Certo non involontariamente o per caso. Era nel mio proposito ripeterle, perché?
Le ragioni sono molteplici.
-        anzitutto per far conoscere ai giovani di oggi ciò che alcuni di noi hanno pensato ieri e probabilmente non è giunto fino a loro. Valeva la pena di farlo? Credo di sì, se non altro perché, da quello che sento, il pensiero giovanile odierno ha molti punti di contatto con quello nostro di allora (e di oggi). Anzi, se le cose stanno così, raccomanderei di risalire per così dire alle fonti – tutte incluse nei volumi delle Indagini metaculturali, in particolare del terzo. Data la scarsissima divulgazione del materiale primo, è anche difficile che questa replica abbia miglior destino seppure i mezzi a nostra disposizione sono attualmente molto più potenti, a cominciare da internet. Ma l’attivazione di questo ha bisogno di un forte innesco che non è nelle nostre possibilità produrre. Comunque penso che il tentativo andava fatto.
-        Una seconda ragione la trovo in me stesso. Non mi basta (a parte il fatto che mi diverte poco) rileggere cose del passato, anche recente, ho bisogno di ripensarle, sia pure in forma succinta. L’idea di fondo rimane quella, ma alcuni elementi di contorno cambiano e con essi cambia per così dire l’ambiente che la ospita. Posso così aggiornare in alcuni punti il testo originale, ma soprattutto ho modo di testare la validità dell’insieme, provvedendo alle riformulazioni che si dovessero rendere necessarie.
-        L’abitudine a ripensare il già molte volte pensato, oltre a sincerarmi sulla resistenza di questo all’usura del tempo (il tempo è la sostanza più corrosiva che si conosca, almeno per le idee), mi rassicura sul mio stesso stato di mente. Talvolta mi capita di non trovarmi più d’accordo con il me di qualche anno prima, ma questo non mi preoccupa granché. Più mi fa dubitare una totale concordanza, quasi non fossi più in grado di seguire il mondo nei suoi cambiamenti. Qualche ritardo è comprensibile alla mia età –e di ritardi ne percepisco moltissimi, soprattutto nella comprensione e accettazione nel campo delle tecnologie– ma oltre un certo limite è bene che cominci a preoccuparmi. Tuttavia mi sembra di capire che imc e dintorni godano ancora di buona salute. Quanto alla mia, di salute, sono abbastanza soddisfatto di quella mentale, assai meno di quella fisica. Mi stessi sbagliando sulla prima?

martedì 28 agosto 2012

Pratica pescatrice di base

lunedì 27 agosto 2012

Come qualmente IMC non ha potuto oltrepassare lo statuto culturale

[430]
Perché non ha voluto farlo, ma anche se avesse voluto, non ne avrebbe avuto gli strumenti. E non avrebbe avuto modo di costruirli?


No, per la sua stessa natura, per come è nata e per la finalità per cui è nata.

Sono cose già dette e ripetute, implicite nelle sue definizioni.

Infatti, essendo le definizioni nient’altro che proposizioni, ricadono nel proprio dominio e vanno relativizzate (definizione 1) ovvero parificate al loro contrario (definizione 2) o infine è sempre possibile trovare un ucl che renda vera la loro negazione (definizione 3)

Queste sono oramai delle ovvietà. Poco più interessante ma sempre da tenere presente, la finalità di imc, cioè il conseguimento e mantenimento della pace, senza la quale non c’è sopravvivenza.

Se quindi imc avesse oltrepassato lo statuto culturale – relativistico per definizione – sarebbe entrato nella sfera degli assoluti, negando se stessa o anche in quegli degli assoluti o degli indecidibili (Gödel), nelle quali non avrebbe nessuna utilità pratica.

imc resta quindi una ipotesi culturale come qualsiasi altra. Non c’è nulla da difendere, nulla da contestare sul piano degli assoluti, e su quello della relatività sarebbe tempo sprecato farlo.

imc è allora un’ipotesi neutra, incapace di incidere sul reale?

Non direi. Penso che sul reale e soprattutto sul suo futuro si incida più con delle ipotesi che con delle certezze. La fisica ha ripreso a camminare dopo che la termodinamica, la relatività einsteiniana e i quanti avevano minato i fondamenti delle certezze newtoniane. Ed è poco probabile che qualche nuova certezza venga a turbare la calma delle ipotesi. Purtroppo questo vale solo per la fisica perché, al di fuori di essa le sedicenti certezze ancora imperversano, insidiando perfino imc, che dobbiamo guardarci dall’assolutizzare inavvertitamente.

Ho chiamato ‘sedicenti’ le certezze, perchèénon vedo chi potrebbe convalidarle se non un’altra certezza e questa un’altra ancora e così via, riproponendo la classica catena causale, come gli aristotelici e il buondio, che tuttavia si sono dimenticati di analizzare convincentemente il primo anello, il principio di causa.

sabato 25 agosto 2012

... addirittura del 'rugby'


[429]
(chiusura dello stesso circuito autogenerativo)

-      Adoperiamo il termine ‘cultura’ anche per differenziare delle ‘sottoculture’ all’interno di popolazioni che per altri aspetti consideriamo culturalmente omogenee, per esempio distinguiamo gramscianamente culture ‘egemoni’ e culture ‘subalterne’...
-      ... o cultura ‘urbana’ e ‘contadina’...
-      ... addirittura del ‘calcio’ o del ‘rugby’...
-      C’è poi tutto il versante legato alle lingue...
-      ... e agli eletti...
-      ... ai tecnoletti, alle specificità professionali...
-      ... alle mode giovanili, ai neologismi...
-      A quanto pare, non c’è nessun criterio oggettivo per classificare le razze.
-      Eppure la cultura viene spesso usata come elemento discriminante. Manca quasi del tutto la disponibilità alla parificazione del diverso; Prevale la rincorsa a chi si assicura il primo posto.
-      Ci sarebbe l’atteggiamento meta...
-      ... a patto che non avanzi pretese di superiorità, di costituirsi a ‘metacultura’

venerdì 24 agosto 2012

... abolire questi due verbi...


[428]
(…prosecuzione dello stesso circuito autogenerativo)

-      C’è pero anche un altro modo di considerare la cultura, né come ‘privilegio’, e neppure come ‘capitale da redistribuire’. Ma, semplicemente come ‘stile di vita’ di una certa popolazione.
-      Concezione antropologica della cultura: insieme delle abitudini, credenze, pratiche sociali che caratterizzano un gruppo umano.
-      Quindi non più ‘cultura’ in generale ma pluralità di ‘culture’.
-      E qui cominciano i guai. Ognuno di esse specie se adiacente o comunque prossima a un’altra, pretende di egemonizzarla, quando non di assoggettarla del tutto. Questo per due ragioni principali: perchè è diversa –e la diversità è concepita come nemica– e perchè possiede cose che noi non possediamo, per esempio il territorio su cui vive.
-      Di queste ragioni l’una dipende dal verbo ‘essere’ –è una cultura diversa– l’altra dal verbo avere –ha ciò che io non ho. Basterebbe abolire questi due verbi e tutto sarebbe risolto.
-      Forse basterebbe ‘relativizzarli’, cioè togliergli l’arma dell’assolutezza...
-      ... già, ma quell’arma la reclamiamo per noi e non vogliamo riconoscere all’altro il diritto di averla anche lui.
-      D’altronde se l’avessimo gli uni e gli altri ci sarebbe lo scontro e nulla sarebbe risolto.
-      Il discorso da culturale si è fatto politico.
-      In sintesi: tutte le culture hanno diritto di esistere, purché disposte a riconoscere lo stesso diritto alle altre...
-      ... anche se prevedono la lapidazione delle adultere...
-      …o in generale la pena di morte?
-      Che cambierebbe se non riconoscessimo questo diritto? Quelli ne farebbero uso lo stesso e a noi non resterebbe che contestarglielo con la forza.
-      Cioè con la guerra. Quindi non c’è via di uscita?
-      Non abbiamo certezza che vi sia, se però cominciassimo ad abolire le nostre assolutezze, è più probabile che lo facciano anche gli altri.
-      Già il fatto che ci distinguiamo dagli ‘altri’ chiamandoci ‘noi’ non è un buon inizio. Dovremmo chiamarci tutti ‘noi’ con le distinzioni interne: ‘quelli di noi che...’ (per esempio ‘approvano la pena di morte’) e ‘quelli di noi che non l’approvano’. È probabile che questa rinuncia al giudizio induca ad un ripensamento che conserverebbe comunque qualche vita all’umanità...
-      ... che però è già tanto numerosa da non averne bisogno.
-      Scusa, ma questa la prendo come una battuta... 

giovedì 23 agosto 2012

Un insieme di abitudini condivise

[427]

[Circuito autogenerativo]
  • Che cos’è la cultura? 
  • Anzitutto è difficile parlarne come di una ‘cosa’.
  • È piuttosto ciò che ci permette di parlare di qualche cosa. È un sistema di comunicazione.
  • Vuoi dire un linguaggio...
  • È piuttosto ciò che permette il formarsi di un linguaggio.
  • Anche se questo non si forma necessariamente. Ad esempio gli scimpanzé hanno una cultura, ma non un linguaggio.
  • Non avranno una lingua articolata come la nostra, ma un linguaggio, parte fonologico, parte gestuale, ce l'hanno!
  • Quindi la cultura per comunicarsi ad altri ha se non altro bisogno di un linguaggio?
  • Per 'cultura' si intende di solito un insieme di abitudini condivise, e una condivisione non è possibile se non c'è comunicazione, cioè un insieme di segnali riconosciuti dagli appartenenti a quella cultura, anzi questo riconoscimento è essenziale per delimitarla.
  • A me sembra che al di là dei segnali, servano i concetti.
  • Questi però possono essere comuni a più culture. Essenziale credo che sia piuttosto il modo come il singolo o una comunità valutano e si servano di un concetto.
  • In alcuni casi il singolo funge da collettore culturale. Accumula cioè cultura anche al di là di quanta ne può utilizzare. In un tempo nel quale non era ancora diffusa la cultura del libro, c'era –e c'è ancora oggi– chi accumulava sapere per poi riversarlo sulla comunità...
  • … quasi enciclopedia vivente.
  • La cultura come 'insieme di nozioni'...
  • … concezione quantitativa, a peso...
  • … e come decoro personale – concezione classista, elitaria.
  • Più volte è capitato che la cultura lavorasse contro se stessa, per esempio da quando, con l'invenzione della scrittura, si è lasciata tentare dalla divulgazione...
  • … con l'arrivo della carta stampata.
  • La cultura ci ha però guadagnato enormemente...
  • ... ma perdendo in profondità...
  • … di pure in segretezza, in riservatezza. La cultura si è andata democratizzando...
  • ... già, fino ad oggi, dove è immediatamente accessibile a chiunque possieda un computer...
  • ... definitiva valutazione...
  • ... o rivalutazione sociale?

mercoledì 22 agosto 2012

... di più...


[426]
“Mi sembra che non stiamo più parlando di ‘cultura’ e neppure di culture’ ma di una ‘sovracultura’ comune a tutte e a tutte superiore:
la sovracultura del di più.”
“Basterebbe toglierla di mezzo e staremmo tutti meglio.”
“Questo è il problema! Ed è ancora una volta il 
PROBLEMA CULTURALE.”

domenica 19 agosto 2012

Mors tua vita mea


Fotografia di Bálint Gilicze
[425]

“Parli sempre di 'cultura', quale cultura?”
“A ciascuno la sua.”
“Le culture si troverebbero tutte d'accordo nel separare i poveri dai ricchi?”
“Sembrerebbe di sì.”
“Ma un povero non può diventare ricco?”
“Certo, se trova un ricco a diventare povero.”
“Se non sbaglio, si chiama 'concorrenza'. Un tempo si diceva: mors tua vita mea.”
“Ma nessuno è disposto a barattare la sua ricchezza con la povertà di un altro!”
“è per questo che hanno inventato la guerra!”
“Bella invenzione! Così alla fine i poveri sono due.”
“Oggi forse nessuno: ne il ricco ne il povero.”
“Grazie alla cultura.”

sabato 18 agosto 2012

Convinti



[424] 
“Sicché la cultura della crescita illimitata è discriminante?”
“Non potrebbe non esserlo.”
“Questo vuol dire che, di quanto gli uni crescono, di tanto gli altri decrescono?”
“Penso di si.”
“Felicemente?”
“Penso di no.”
“E allora perché ci stanno?”
“Perché la cultura li ha convinti.”

venerdì 17 agosto 2012

È una questione di cultura


[423]
Quando si sente dire ancora oggi che imperativo categorico è la crescita economica, senza la quale non c’è sopravvivenza possibile, viene da dubitare dell’intelligenza umana. Giacché è evidente il contrario: che una crescita troppo a lungo protratta ci porterà all'estinzione. Entro quanto tempo? Non sappiamo. La nostra intelligenza non ci sa dire neppure questo. La nostra speranza è solo che la sopravvivenza ci permetta di godere ancora un poco della crescita. Perché ne stiamo godendo? Forse, anzi certamente, non tutti. E questo non turba la crescita di coloro che ancora ce l'hanno? Sembra di no. È una questione di cultura.

mercoledì 15 agosto 2012

Normalmente, l'avidità

[422]
Una politica sensata non può oggi essere nazionale, neppure quando le nazioni hanno le dimensioni –in chilometri quadrati e numero di abitanti– dell’India, Cina, Russia. Gli stessi Stati Uniti o l’Unione Europea, presi a se, sono più un pericolo per l’umanità che un sostegno. Non per nulla sono sorte a suo tempo la ‘Società delle Nazioni’ e ai giorni nostri l’ONU. Ma la loro efficienza ai fini della pace mondiale –ed è questa che ci dovrebbe interessare più di tutto– è piuttosto scarsa. La ‘Società delle Nazioni’ non è valsa ad evitare la Seconda Guerra Mondiale, l’ONU le molte guerre scoppiate tra Asia e Stati Uniti con largo concorso dell’Europa, o l’interminabile conflitto arabo-palestinese, per non parlare delle ‘guerre dimenticate’ con milioni di morte in Africa.
Che cosa impedisce agli uomini di trovare un accordo di pacifica convivenza su questo piccolo pianeta?
È presto detto: normalmente l’avidità, economicamente il ‘di più’. Che popolazioni povere, mancanti del necessario, aspirino al ‘di più’ è ovvio, che lo facciano anche nazioni ben più ricche del necessario è irresponsabile, data la finitezza delle risorse terrestri. Il problema non è economico né politico.
È culturale.

martedì 14 agosto 2012

Un ‘sogno europeo’


Un dipinto di Borislav Sajtinac
[421]
Non credo sia mai esistito un ‘sogno europeo’; troppo grandi sono le divisioni nazionali generati da millenni di storie antagoniste. Tutt’al più se un sogno c’è stato, è assai recente e l’hanno sognato solo banchieri e speculatori. Gli altri ci sono stati trascinati dentro dalla politica e dalla propaganda. Se e quanto l’operazione gioverà effettivamente alla comunità –e poi, a quale comunità?– non sappiamo. In ogni caso gli eventuali vantaggi quanto si estenderebbero al di là dei ristretti confini d’Europa?

lunedì 13 agosto 2012

Amministratore del pianeta

[420]
L’idea dell’uomo come usufruttuario e amministratore del pianeta non è certo nuova; l’ho trovata esposta anche nel testo di una Cantata bachiana degli anni venti del Settecento. Solo che lì il ‘padrone’ era Dio, mentre a noi questa precisazione non serve. È dei nostri giorni l’interpretazione della terra come ‘sistema vivente’, dotato esso stesso di una sorta di identità biologica superiore a quella dei suoi abitanti. Anche di questa interpretazione possiamo fare a meno, ma non delle sue conseguenze pratiche. Se ci teniamo alla sopravvivenza credo che sarebbe bene ci comportassimo come se questa interpretazione fosse la nostra.

domenica 12 agosto 2012

Bontà nostra


Un opera di Boris Hoppek...

[419]
Il ‘sogno americano’ aveva le sue ragioni. Che stavano sopratutto in ciò che si lasciava, una società ingiusta e violenta, sempre disposta a scaricare ogni suo problema su i più deboli, una società parassitaria nella quale chi meno aveva più pagava e chi non aveva nulla era costretto a vendere se stesso, la sua ‘forza lavoro’ solo per conservare il suo diritto alla vita, e talvolta neppure per questo. Di positivo il ‘sogno americano’ ci metteva la speranza che si potesse fare diversamente. Oggi qualcosa di molto simile accade con immigranti extracomunitari. Gli americani, giustamente ne ammiriamo sia il sogno che la realizzazione; gli attuali extracomunitari li consideriamo assai meno…

Perché un conto sono gli europei americanizzati per propria iniziativa, un altro dei ‘non europei’ cui concediamo di europeizzarsi, bontà nostra. Siamo sempre noi a dare come a togliere. Mi sembra poco probabile che questo rapporto fortemente squilibrato sia destinato a durare a lungo. Già da troppo tempo ci siamo creduti padroni del pianeta. Ora tocca a qualcun altro e questo altro dovrebbe essere il pianeta stesso e noi i suoi amministratori locali.

mercoledì 8 agosto 2012

... e il popolo non ha diritto a un futuro

[418]
Proviamo a immaginare, un immigrante europeo di metà Ottocento, in arrivo sotto la statua della libertà, la testa piena di confuse speranze, consapevole solo di ciò che ha lasciato: una condizione di miseria in una società che le speranze gliele ha tolte tutte in cambio di un benessere che non lo riguarda né come individuo né come classe sociale. Il benessere è per i nobili, il clero, tutt’al più per le fasce alte della borghesia. Se non è uno schiavo, poco ci manca. Tutto è contro di lui, non ha possibilità di rivalsa: le leggi, i tribunali, la polizia lo sottomettono alla volontà di uomini come lui ma che per volontà divina gli sono superiori. Nella monarchia europea, la libertà, nonostante i rivolgimenti di cui gli hanno parlato, non è roba per tutti; sì e no che lo è per i borghesi che gli stanno sopra; lui è del popolo e il popolo non ha diritto a un futuro.

E che cosa conta di trovare?

Terre sconfinate, occasioni di crescita economia e sociale ottenibili in cambio di duro lavoro, fiducia in se stessi, nelle proprie capacità; ma soprattutto libertà, nessuno cui essere sottomessi, niente re, niente aristocrazia, niente clero, solo uomini tra uomini… forse c’era un margine di utopia in tutto questo, ma valeva la pena di tentare. E poi se si era fortunati si poteva trovare anche l’oro…

martedì 7 agosto 2012

Quali affamati?

[417]
I nostri vicini di casa, quelli le cui condizioni di vita potrebbero essere le nostre solo che il vento soffiasse da un’altra direzione? O anche le condizioni di chi vive una realtà profondamente diversa, per noi addirittura impensabile?
Un boscimano o un aborigeno della Nuova Guinea lo pensiamo molto meno sensibile alle privazioni che un newyorchese, un parigino; o un clochard più resistente al freddo di un abitante dei ‘quartieri alti’. Ci fa comodo pensarlo, e il mondo degli affamati non raggiunge quasi mai gli inquilini della porta accanto. Sappiamo, anche per averli visti in televisione, che a qualche miliardo di chilometri da noi uomini e donne come noi non sanno che cosa dar da mangiare domani ai loro figli. Sappiamo anche le migliaia di chilometri non sono nulla sul nostro minuscolo pianeta, men che nulla per le nostre capacità di comunicare a distanza. Eppure, quando si parla di umanità, questa sembra decrescere con la distanza, non tanto chilometrica, facilmente superabile, quanto culturale, e allora può capitare che l’extracomunitario badante in casa nostra ci sia più lontano e, forse, più affamato di suo fratello rimasto in Tasmania.

venerdì 3 agosto 2012

Que reste-t-il …

[416]
Resta qualcosa del sogno americano? Qualcosa di positivo, di utilizzabile nella realtà odierna?
Non solo penso di sì, ma credo che qualcosa, forse molto ci possa, ci debba servire per salvare il nostro futuro da una fine che incombe anche se non vogliamo prenderne notizie. Ma, per fare questo ‘salto di qualità’ –come si dice oggi– c’è bisogno di un ampliamento e di una trasformazione. Non più sogno unicamente americano, ma di tutti gli uomini e non più volta al successo, al guadagno, all’arricchimento illimitato, ma alla sopravvivenza, che proprio da quella crescita è messa in pericolo.
Non sto a ripetere ciò che da ogni parte ci viene detto: la precarietà del nostro futuro, se non saremo capaci di porre un freno alla nostra avidità di benessere. È quasi il capovolgimento del sogno americano: non il sempre più per chi partecipa al grande festino, ma il sempre più di seduti alla mensa di tutti.
Comunismo?
So che la parola atterrisce molti americani. Non sono un nostalgico di quel regime che la storia ha travolto. Molto di ciò che dice e fa Obama credo dia speranza anche agli esclusi al grande sogno.

giovedì 2 agosto 2012

Il sogno americano

[415]
Oggi è abbastanza facile criticare e perfino ridicolizzare il ‘sogno americano’ –che sarebbe più giusto chiamare ‘sogno euroasiatico’ perché i suoi primi sognatori sono stati soprattutto derelitti europei ed asiatici– , ma per comprenderlo nella sua vastità e nelle sue motivazioni bisogna rifarsi alle condizioni ancora quasi feudali in cui si dibattono tra guerre ed oppressioni le popolazioni del ‘Vecchio Mondo’. La parola ‘libertà’, oggi usurata fin quasi all’insignificanza, era, ed in parte ancora è, fisicamente rappresentata dagli immensi territori a oriente delle Montagne rocciose, aperti allo sfruttamento agricolo, minerario ed industriale. Perché questo sfruttamento si realizzasse e producesse ricchezze e benessere occorrevano lavoro, intraprendenza e una buona dose di prepotenza che gli immigrati si portavano dietro dai loro paesi di origine. È bene infatti ricordare che in quegli immensi territori c’era già chi ci viveva, uomini e animali, ma questa è un’altra storia…
In tempi più recenti il ‘sogno americano’ si è incanalato per altre vie. A una prima avvisaglia di intolleranza ‘ecologica’ –avvisaglia che, come tutto in America, acquistò subito dimensioni critiche– il grande sogno reagì approfittando della follia scatenatasi in Europa, follia che gli aprì le strade dell’intervenzione armata, percorsa con un successo economico anche se con una serie di insuccessi militari fino ai giorni nostri. La ‘libertà’ che un tempo salutava –in effige e in prospettiva– gli immigrati in arrivo al porto di New York, ora stava diventando, per una buona parte della popolazione mondiale, un simbolo di prepotenza non più tollerabile. Costretto a difendersi, il ‘sogno americano’ attacca, ma i suoi attacchi, nonché rafforzarlo, lo indeboliscono, lo costringono, per sopravvivere, alla violenza, all’assassinio. Nel frattempo un’altra via gli si è aperta: internet e l’industria informatica, in larga parte dominata dall’iniziativa americana, stavano costruendo una nuova forma di egemonia, assai più insidiosa di quella costruita con le armi: l’egemonia mediatica, capace di agire direttamente sui cervelli, formandoli su modelli di crescita ecologicamente e socialmente insostenibili. Se questi modelli, come fanno, attecchiscono a livello mondiale, c’è da domandarsi chi è il beneficiario. Certo non la vecchia statua che la Rivoluzione francese ha regalato alla nazione americana, né l’umanità intera o la vita sulla terra –le quali anzi cominciano ad accorgersi della regressione mentale che accompagna il progresso tecnologico– ma, banalmente, la nuova classe dei super ricchi, che ha sostituito quella eroica dei pionieri. Ne sappiamo qualcosa anche noi italiani che i pionieri neppure li abbiamo conosciuti.