lunedì 25 giugno 2012

Odi et amo

[400]

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

(Odio e amo. Forse vuoi sapere perché lo faccio.
Non so, ma sento che accade e mi torturo.)

Il verso latino e la concisione raggiungono in questo distico un vertice di immediatezza forse insuperato. Talvolta immaginiamo il poeta come un tecnico della diversificazione, talaltra come una voce che esprimere l’inesprimibile. Catullo fa l’una e l’altra cosa insieme. Letterato finissimo nei poemetti alessandrineggianti, Catullo effonde la sua vena poetica in brevi componimenti di tono popolare, spesso scurrile, che ai nostri orecchi suonano estremamente attuali. La sua sboccata invettiva ce lo rendono un personaggio che ci sembra di poter incontrare per strada, in un circolo giovanile (Catullo è morto poco più che trentenne), al mercato. L’immediatezza del suo linguaggio ci fa dimenticare la distanza che ci separa da lui nel tempo e nella collocazione culturale. Tra i massimi esponenti della latinità, poeta tra i più amati del suo tempo, continua a parlarci con la familiarità del vicino di casa e con la passionalità di un ragazzo innamorato. Se mai la poesia è stata espressione di verità vissuta, questo è il caso di Catullo, e la sua verità non è diversa dalla nostra…
Ma noi, perché cerchiamo nella parola un altro –forse pure un poeta– la ‘verità’? Non ci basta una ‘finzione di verità’? Anzi non è piuttosto quest’ultima che ci attira soprattutto? Se le invettive o i lamenti di Catullo non fossero espressi in forme letterariamente irreprensibili, pensate che ce ne occuperemo ancora dopo più di duemila anni? Reciprocamente, se avessimo davanti solo forme letterariamente irreprensibili, pensate che supererebbero i confini di un esercizio di traduzione?
È chiaro: ci vogliono ambedue, verità e artificio!
Ma come misuriamo l’una e l’altro?
Se la verità è male espressa, non le concediamo la nostra fiducia, e se l’artificio e ben congegnato, non lo distinguiamo dalla verità. Essenziale sembra sia quindi, non tanto la verità della parola quanto l’artificio che la rende vera, sia che lo sia, sia che no.

giovedì 21 giugno 2012

Ter conatus ibi collo


Dante e Virgilio nell'Inferno – William-Adolphe Bouguereau (1850)

[399]

Ter conatus ibi collo dare brachia circum, 

ter frustra comprensa manus effugit imago
par levibus ventis volucrique simillima somno.

(Per tre volte tentò di gettargli le braccia al collo, per tre volte l’ombra vanamente abbracciata gli sfuggì di mano, simile a vento lieve e a fugace sonno.)

Siamo negli inferi, dove Enea rincontra l’ombra del padre Anchise, che li predirrà le magnifiche sorti di Roma. Virgilio finge qui un sapere reale che lui possiede, ma Enea non poteva conoscere. Lo affida quindi allo spirito onnisciente di un defunto. L’uomo non accetta la barriera che separa il passato dal futuro e tenta con ogni mezzo –magia, fede, speranza– di infrangerla. Ma non ci riesce, come quando cerca invano di riabbracciare un passato irrimediabilmente trascorso. Non credo che Virgilio intendesse questo con la bella immagine del triplice vano abbraccio, ma la polisemanticità del linguaggio poetico permette fare questo ampliamento interpretativo.
– – –
Ricordo quanta fatica ci costava, nelle versioni dal latino, rendere in un italiano comprensibile la sintetica città dell’originale. Qui per esempio la ‘frustra comprensa … imago’ la “tre volte invano abbracciata immagine” occupa sì e no mezzo verso, mentre una traduzione appena accettabile occuperebbe uno spazio all’incirca doppio. Non fosse altro che per questo –cioè per fare toccare con mano la differenza tra lingue anche vicine e le diverse loro caratteristiche espressive– avrei voluto fosse conservata alle giovani generazioni l’esperienza del latino e, per tutt’altre ragioni, anche del greco. Mi si obietterà che la stessa o analoga esperienza la si può fare anche con una lingua ‘viva’. Vero, ma il confronto fatto con una lingua non più attuale –ma non per questo ‘morta’– ci permette di concentrare l’attenzione sugli aspetti strutturali della lingua, sfuggendo all’urgenza comunicativa che predomina di gran lunga nell’apprendimento ‘funzionale’. Ma –insisterà l’obiettore– le lingue servono anzitutto per comunicare, non per rimirarsi allo specchio. Ancora una volta: vero, ma talvolta può essere utile, oltreché divertente, osservarle funzionare, anche per rimanerne alla guida e non esserne sopraffatti, visto che la loro malcelata ambizione è di essere loro a guidare noi semplici passeggeri.
– – –
Nella ripresa che Dante fa di questa immagine virginiana si legge
O ombre vane, fuor che nell’aspetto!
tre volte retro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Nessuna similitudine a commento del fatto, nessun rinforzo metaforico. Perché?
Anzitutto perché Dante non è Virgilio, poi perché diverse sono le culture, diverso il momento storico. Virgilio vive l’apogeo culturale della latinità, consapevole dell’equilibrio raggiunto, che può attardarsi a ornare la sua invenzione con immagini letterarie; Dante invece, che scrive incalzato dalla turbolenza dei suoi tempi, taglia corto e si attiene a un realismo degli affetti che l’altro, il cantore ufficiale dell’età augustea, non può che rivestire di letteratura.
Riflessione, queste, che fino a pochi anni fa avrei ripudiato, attribuendole a un livello alto-colto, lontano dalla mia ricerca sui fondamenti, anche linguistici, della cultura. Oggi non vedo perché non coinvolgere in questa ricerca chiunque ne sia interessato e così, ogni tanto, ci provo.

Chloe


[398]
Un signore di età matura osserva una ragazzina saltellargli intorno. Un po’ lo cerca, un po’ lo evita con la inconsapevole malizia dei suoi anni. Ne ha infatti dodici o tredici; le sue movenze sono quelle di un cerbiatto che insegue la timida madre per le balze sabbiose, impaurito da ogni stormir di fronda. Ma il signore non sembra avere cattive intenzioni: non è una tigre feroce né un getulo leone pronto a sbranarla. È solo un poeta in vena di scrivere eleganti versi e lei non ha nulla da temere. Lasci quindi la madre, tanto più che è ormai ragazza da marito.
L’ultima esortazione:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro.
non è tuttavia del tutto rassicurante. Orazio gioca qui con improvviso mutamento di tono; dall’innocente immagine del cerbiatto al riconoscimento di uno stato di cose: il cerbiatto è ormai una ragazza da farci all’amore. E in questa brusca virata verso la realtà sta forse la trovata poetica che cambia d’un colpo la prospettiva di questa piccola ma straordinaria poesia: sì,  ora la ragazza ha davvero ragione di temere, ma di se stessa.

Vitas hinnuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus aviis
matrem non sine vano
aurarum et siluae metu.

Nam seu mobilibus veris inhorruit
adventus foliis seu virides rubum
dimovere lacertae,
et corde et genibus tremit.

Atqui non ego te tigris ut aspera
Gaetulusve leo frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro.

(Mi sfuggi, Cloe come un cerbiatto /  che per i monti impervii / cerchi la madre vanamente impaurita / dallo stormire della fronda // Se infatti l’arrivo della primavera / scuote le foglie o un verde ramarro s’agita tra i rovi / le tremano cuore e ginocchia. // Eppure non t’inseguo per sbranarti / come una tigre feroce o un leone di Getulia, / lascia finalmente tua madre / ora che sei buona per un uomo.)

 Da qualche anno ho ripreso, con l’aiuto di un traduttore, le letture abituali ai tempi del liceo, non più incalzato dagli obblighi scolastici, ma per semplice diletto, e posso dire che di questo diletto non ringrazierò mai abbastanza le circostanze che me lo hanno concesso; il ‘tempo libero’, di cui oggi ho abbondanza, ma più ancora la scuola, che ha ampiamente compensato i dispiaceri di allora con il piacere che i medesimi oggetti mi procurano oggi. Temo che per un ragazzo dell’era dei telefonini e dei computer sia quasi impensabile un pomeriggio passato in poltrona a leggere Orazio. Lo stesso ragazzo potrebbe obbiettarmi che internet è assai più divertente e anche istruttivo di Orazio perché vi si legge l’enorme ricchezza accumulata in altri duemila anni di storia dell’umanità. E potrebbe anche avere ragione. Per sincerarsene gli consiglierei di chiudere per qualche ora suoi apparecchi –che anch’io posseggo– e di aprire le Odi di Orazio…
Ma già, lui non sa il latino…

venerdì 15 giugno 2012

Novità fresche fresche da Cantalupo


  • Forse è bene che cominciamo a pensarci.
  • A che cosa?
  • A un assetto planetario di sopravvivenza.
  • Chi deve pensarci?
  • Tutti.
  • Sopravvivenza di chi?
  • Delle specie ancora viventi.
  • Assetto stabile?
  • Sì, purché variabile.

martedì 12 giugno 2012

Come le foglie che nel tempo

[397]
Teatro greco a Dodona

Come le foglie che nel tempo

fiorito della primavera nascono

e ai raggi del sole rapide crescono,

noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell'età,

ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.

Ma le nere dee ci stanno a fianco,

l'una con il segno della grave vecchiaia
 
e l'altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,

come la luce d'un giorno sulla terra.

E quando il suo tempo è dileguato

è meglio la morte che la vita.

Da quanto mi risulta –e non sono del tutto disinformato in materia–, pochi sono oggi i ragazzi che hanno in mente, vuoi nell’originale o, come qui, in traduzione, questi versi di Mimnermo o i molti passi della poesia greca o latina che per noi giovani ‘di buona famiglia’, erano pasto quotidiano. Pasto, per molti già allora indigesto, per altri più o meno tollerato. E anche se la tolleranza era buona, non era affatto chiaro perché ci dovessero interessare i frutti personali di gente vissuta più di due millenni fa. Specialmente quando questi frutti venivano raccontati in un linguaggio palesemente artificioso e improbabile. E infatti la gran parte di ciò che era penetrato nella nostra mente nel giro di pochi anni ne usciva per non farvi più ritorno. Così per esempio il greco, che linguisticamente ci era più lontano dal latino, l’ho dimenticato quasi del tutto, e oggi me ne dispiace. Come mai mi dispiace, visto che di quel poco che era rimasto, non ho più avuto occasione di servirmi in tutti questi anni?
È possibile che alcune cose giacciano inerti nelle nostre menti finché un evento fortuito non le faccia riemergere e solo allora ci accorgiamo di averle avute, anzi di averle ancora, seppure corrose dal disuso. E, quasi d’improvviso, scopriamo quanto la loro occulta permanenza abbia modellato il nostro pensiero e il nostro agire senza che ce ne rendessimo conto. Questo mi è capitato nei miei tardi anni, e molte cose che avevo reputate inutili nella vita attiva si sono rivelate essenziali per sostenere l’inattività degli anni successivi. Se non fosse che per questo, le ore passate a decifrare e capire i ‘classici’ penso siano state tra le più fruttuose della mia vita e mi permettono di vivere oggi la mia inattività come una ricchezza che finalmente può rientrare in circolo, per esempio attraverso questi ‘postini’.
Il costante innalzamento della vita media lascerà alle future generazioni –purché l’attuale lo permetta– sempre più tempo da trascorrere in vecchiaia, ed è abbastanza strano che di questo problema la scuola non si voglia occupare. La vita materialmente produttiva si fa, al contrario della vita media, progressivamente accorciando: da un lato il tempo della formazione tende a invadere la maturità dell’individuo, dall’altro la crescita dell’automazione e dell’azione virtuale toglie terreno alla vita attiva e libera tempo per una corrosiva inerzia… e la scuola, la società fanno poco o niente per affrontare questo che è forse il più grave problema sociale dei nostri giorni. Ci preparano per una vita attiva di sì e no una trentina di anni, lasciandoci a noi stessi per un’altra trentina. Più che ai suoi tempi Mimnermo avrebbe oggi ragione per piangere. Sarebbe però forse meglio se, anziché piangere, si desse da fare perché anche l’inerzia del vecchio diventi produttiva.

venerdì 8 giugno 2012

Si sta come d’autunno

[396]
Si sta come / d’autunno
sugli alberi / le foglie.

Per molti la personalità poetica di Ungaretti è legata alla sua produzione giovanile, in particolare a L’allegria, scritta negli anni della Grande Guerra.

I versi sopra riportati non mostrano tuttavia alcuna caratteristica che li differenzi da una normale coppia di settenari. Anche la metafora della precarietà non è particolarmente audace. Semmai colpisce la dolcezza dell’immagine autunnale a esprimere la crudezza della guerra, ma neppure quest’opposizione è ignota ai classici.

Anche il verso più citato di Ungaretti:

“M’illumino d’immenso”,

indubbiamente assai felice nel condensare in brevissimo spazio un’impressione di infinito, non mi sembra spalancare le porte della poesia italiana a impensate avventure letterarie. Come ogni novità, anche quella dell’impressionismo ungarettianno, per essere colta nella sua singolarità va riferita al suo UCL – in questo caso alla tradizione pascoliana, crepuscolare di quegli anni Non sono un critico letterario e tanto meno un approfondito conoscitore della lirica italiana; la mia preferita tra le poesie di Ungaretti è tuttavia:

In Memoria
 
Si chiamava

Moammed Sceab


Discendente

di emiri di nomadi

suicida

perché non aveva più

Patria

Amò la Francia

e mutò nome


Fu Marcel

ma non era Francese
e non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

dove si ascolta la cantilena

del Corano

gustando un caffè


E non sapeva 
sciogliere

il canto

del suo abbandono


L’ho accompagnato

insieme alla padrona dell’albergo

dove abitavamo

a Parigi

dal numero 5 della rue des Carmes

appassito vicolo in discesa.


Riposa

nel camposanto d’Ivry

sobborgo che pare

sempre

in una giornata

di una

decomposta fiera


E forse io solo

so ancora 
che visse


Non so se a commuovermi tuttora sono i frantumati versi di Ungaretti o il loro contenuto, oggi, nell’era delle grandi migrazioni, delle disperazioni di massa, di Sarkozy e della Lega.

mercoledì 6 giugno 2012

Ficciones

[395]

Ho ‘scoperto’ Jorge Luis Borges piuttosto tardivamente – verso la fine degli anni Sessanta. La prima reazione all’indimenticabile lettura di Ficciones fu musicale. È dal 1970 la compilazione della raccolta di brevi composizioni pianistiche intitolata Inquisizioni musicali. Studi ed esercizi di archeologia sperimentale con alcuni contributi alla restituzione di testi inesistenti e un’appendice di 15 finzioni per violoncello solo, raccolta di dichiarata ispirazione borgesiana nel suo essere insieme testo ed esegesi del testo. Parimenti borgesiana è la quasi contemporanea stesura –questa volta verbale– degli aforismi di Musica-Società, il mio primo tentativo in campo filosofico-letterario. Negli anni seguenti il grande modello, senza essere citato come in precedenza (anche Musica-Società recava il sottotitolo di Inquisizioni Musicali II), ha continuato ad agire sotterraneamente nella mia attività compositiva, per esempio nella rinuncia all’invenzione primaria –che peraltro in Borges non è mai assente– in favore di rivisitazioni di grammatiche e stili storici. Operazioni del genere non erano certo una novità, neppure per i musicisti: Berio nella sua Sinfonia del 1966 riutilizza un intero tempo di una sinfonia di Mahler, Strawinsky già da anni propone incursioni in territori altrui, anche se le fa precedere da un impietoso lavoro di destorificazione, quasi a restituire a un materiale indelebilmente segnato dalla storia un’originaria, verginale in contaminazione, o anche per sperimentare un modo di comporre, come si disse, ‘al quadrato’, il cui materiale di base non fossero più i suoni in quanto tali, ma in quanto vocaboli di una lingua morta. Nel caso mio penso che non si trattasse di acquiescenza a una moda incipiente e neppure della ripresa di modi strawinskiani – quelli che erano stati dominanti nella mia produzione giovanile (fino al 1957). Frattanto la mia nuova attività di ‘operatore culturale di base’ mi aveva portato a scrivere per la scuola primaria una serie di Storielle (Il lago delle storie riflesse, 1984), ognuna delle quali derivata da noti modelli letterari, tra cui nuovamente Borges. È un ‘Borges’ formato ridotto, destinato a lettori appena usciti dall’infanzia, di conseguenza assai meno complessi e soprattutto meno impegnati letterariamente. Qualche anno dopo –siamo già ai primi del 2000– ecco ancora l’ombra, a un tempo imponente e rassicurante, di Borges su un gruppo di opere –Metaparole, Parabole, Epistole politiche, e ora questi Postini– opere tutte costituite di testi brevi o brevissimi (in media poco più lunghi delle Storielle), questa volta però destinate a lettori adulti e non di rado trattanti argomenti di problematica attualità. Certo –fuorché in alcune Parabole– l’esecuzione si è staccata dal modello, non però per inseguire un’originalità di cui mi è sempre importato poco, bensì nella consapevolezza di non avere né le conoscenze nell’ampiezza di sguardo di quel grande, ma soprattutto di vivere in tutt’altre condizioni culturali. Forse mi sarebbe piaciuto –non lo nego– vivere in una situazione, come la sua, di splendido isolamento, al servizio, non della letteratura universale, ma di una musica, forse non più universale (credo che non si possano, nell’era del pop e del rock, pensare musicalmente in termini mahleriani e neppure più darmstadtiani) ma sufficientemente informativa da soddisfare le esigenze di chi ha vissuto altre stagioni.
………
Questo doveva esser un ‘postino’ su Borges e ha finito per esserlo su di me. Non è che ho ceduto a una tentazione che non mi appartiene. È semplicemente che mi è risultato assai più semplice parlare di me anziché di Lui.

lunedì 4 giugno 2012

Don Chisciotte

[394]

Non credo di dir niente di stravagante affermando che il Don Chisciotte appartiene alla Weltliteratur, per usare del termine goethiano. Parlo inoltre per sentito dire, poiché, non essendo un buon lettore, non conosco un numero sufficiente di opere così qualificabili, e di conseguenza il mio parere varrebbe poco o nulla se non fosse confortato da voci ben più autorevoli. Per la verità, ora che lo sto rileggendo, mi importa sempre meno di altre ‘autorevolezze’, bastandomi quella sua, di Miguel de Cervantes Saavedra.

In che senso un postino sul Don Chisciotte rientra tra questi del come se? Dicendo ‘come se’ il parlante istituisce un secondo piano di comunicazione legato al piano principale da un rapporto di analogia se non di omologia. I due piani si rinforzano a vicenda e spesso costituiscono un espediente retorico di grande efficacia, soprattutto se il secondo piano, quello metaforico, è rappresentato da elementi che nulla hanno a che fare con quelli del primo piano fuorché nel rapporto di omologia (o analogia). Anche il Don Chisciotte si dispone su più piani, crea anzi più mondi paralleli, simile in questo a certi modelli della fisica di oggi, per cui la ‘realtà’ non è monoplanare come nei modelli più o meno tradizionali della fisica ‘classica’, ma multiplanare, consistente cioè di più mondi paralleli ma non comunicanti tra loro. La realtà di Don Chisciotte non è quella della nostra quotidianità, ma quella di una quotidianità leggendaria, fiabesca, filtrata attraverso una cultura che ha perso la sua, se mai l’ha avuta. E non è la quotidianità del poeta, in cui quello si rifugia, al riparo dalla sgradevolezza del reale, perché Don Chisciotte, quella sgradevolezza, nonché evitarla, se la tira addosso in quantità difficilmente sopportabile se non fosse per la sua follia cavalleresca. Quanto siamo lontani dall’Es war als del romantico Eichendorff, la cui irrealtà galleggia, altrettanto fiabesca, in una notte di luna. Cervantes non è un romantico –la cultura del suo tempo non glielo avrebbe permesso–, e quindi anche il suo Don Chisciotte non può esserlo. Eppure dalle pagine del grande libro spira un’aria di innocente candore che raggiunge anche la popolaresca, prosaica presenza di Sancho Panza; e, vorrei dire, perfino la brutalità impietosa della quotidianità reale, che Cervantes riveste sapientemente di una comicità che la raccorda alle stravaganze del protagonista.

Abbiamo così, per il romanzo, una struttura portante a tre piani: Don Chisciotte, Sancho Panza, il mondo reale, una sorta di contrappunto a tre, del quale Cervantes è padrone assoluto. Come reagisce il lettore moderno a questa prova di abilità, a questo intreccio di piani, ciascuno dei quali portatori di una sua ‘verità’?

domenica 3 giugno 2012

La vida es sueño

[393]

 È il titolo del dramma più celebrato di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Il tema degli indistinguibili tra vita e sogno e comune nelle varie letterature, sia antiche che moderni, ma fa anche parte dell’esperienza di tutti, come quando, risvegliati da un sonno profondo, restiamo per qualche tempo in dubbio se ciò che abbiamo appena sperimentato fosse sogno o realtà.
A me è capitato di interrogarmi per mesi sull’identità di una persona che ero convinto di aver frequentato per molti mesi e che d’un tratto era scomparsa senza che potessi ricordare chi fosse e neppure se fosse effettivamente esistita.
Il primo di questi postini del ‘come se’ comincia con un Es war als… (era come se), mantenendo poi l’irrealtà dell’immagine lungo tutta la poesia senza mai neppure sfiorare il piano di una reale concretezza. Calderón pone decisamente l’equazione vita = sogno e, così facendo, esce dalla metafora come mezzo espressivo per entrare in un ambito filosofico nel quale metafora e realtà coincidono. La forza ‘fondante’ del verbo ‘essere’ toglie ogni velo di incertezza, ogni traccia di ‘come se’, e dichiara inequivocabilmente l’identità tra vita e sogno. Il linguaggio verbale non ha però la proprietà simmetrica del linguaggio matematico, per cui, ‘se vita è sogno’, anche ‘sogno è vita’. Le due espressioni non si equivalgono del tutto perché le parole ‘sogno’ e ‘vita’ non hanno esattamente lo stesso significato nei due casi. Più che non l’aspetto denotativo cambia l’alone connotativo che le circonda. “La vita è sogno” suona come un’affermazione addirittura metafisica che trasporta la realtà della vita in un mondo di irrealtà onirica, quasi un iperuranio platonico; “il sogno è vita” ha una sfumatura concessiva, come se dicesse “Anche il sogno è –fa parte della– vita”. Mentre i numeri sono semanticamente neutri, le parole non lo sono, anzi variano di significato addirittura per un cambio di posizione.
Il dramma filosofico-teologico di Calderón difficilmente avrebbe potuto intitolarsi El sueño es vida, a parità di contenuto.  Lo avrebbe impedito la direzionalità del movimento: ascensionale nel passaggio dalla vita al sogno, rivolto alla terra nell’altro caso. Questione del tutto periferica e inessenziale – si dirà– quella da me posta per un’opera del peso di La vida es sueño. D’accordo, ma forse l’unica dove poteva avere senso l’intervento di un troppo superficiale frequentatore della lingua spagnola e delle sue molteplici letterature.