Odi et amo. Quare id faciam,
fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et
excrucior.
(Odio e amo. Forse vuoi sapere
perché lo faccio.
Non so, ma sento che accade e
mi torturo.)
Il verso latino e la concisione
raggiungono in questo distico un vertice di immediatezza forse insuperato.
Talvolta immaginiamo il poeta come un tecnico della diversificazione,
talaltra come una voce che esprimere l’inesprimibile. Catullo fa l’una e
l’altra cosa insieme. Letterato finissimo nei poemetti alessandrineggianti,
Catullo effonde la sua vena poetica in brevi componimenti di tono popolare,
spesso scurrile, che ai nostri orecchi suonano estremamente attuali. La sua
sboccata invettiva ce lo rendono un personaggio che ci sembra di poter
incontrare per strada, in un circolo giovanile (Catullo è morto poco più che
trentenne), al mercato. L’immediatezza del suo linguaggio ci fa dimenticare
la distanza che ci separa da lui nel tempo e nella collocazione culturale.
Tra i massimi esponenti della latinità, poeta tra i più amati del suo tempo,
continua a parlarci con la familiarità del vicino di casa e con la
passionalità di un ragazzo innamorato. Se mai la poesia è stata espressione
di verità vissuta, questo è il caso di Catullo, e la sua verità non è diversa
dalla nostra…
Ma noi, perché cerchiamo nella
parola un altro –forse pure un poeta– la ‘verità’? Non ci basta una ‘finzione
di verità’? Anzi non è piuttosto quest’ultima che ci attira soprattutto? Se
le invettive o i lamenti di Catullo non fossero espressi in forme
letterariamente irreprensibili, pensate che ce ne occuperemo ancora dopo più
di duemila anni? Reciprocamente, se avessimo davanti solo forme letterariamente
irreprensibili, pensate che supererebbero i confini di un esercizio di
traduzione?
È chiaro: ci vogliono ambedue,
verità e artificio!
Ma come misuriamo l’una e
l’altro?
Se la verità è male espressa,
non le concediamo la nostra fiducia, e se l’artificio e ben congegnato, non
lo distinguiamo dalla verità. Essenziale sembra sia quindi, non tanto la
verità della parola quanto l’artificio che la rende vera, sia che lo sia, sia
che no.
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lunedì 25 giugno 2012
Odi et amo
[400]
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giovedì 21 giugno 2012
Ter conatus ibi collo
Dante e Virgilio nell'Inferno – William-Adolphe Bouguereau (1850)
[399]
Ter conatus ibi collo dare brachia circum,
ter frustra comprensa manus effugit imago
par levibus ventis volucrique simillima somno.
(Per tre volte tentò di gettargli
le braccia al collo, per tre volte l’ombra vanamente abbracciata gli sfuggì di
mano, simile a vento lieve e a fugace sonno.)
Siamo negli inferi, dove Enea
rincontra l’ombra del padre Anchise, che li predirrà le magnifiche sorti di
Roma. Virgilio finge qui un sapere reale che lui possiede, ma Enea non poteva
conoscere. Lo affida quindi allo spirito onnisciente di un defunto. L’uomo non
accetta la barriera che separa il passato dal futuro e tenta con ogni mezzo
–magia, fede, speranza– di infrangerla. Ma non ci riesce, come quando cerca
invano di riabbracciare un passato irrimediabilmente trascorso. Non credo che
Virgilio intendesse questo con la bella immagine del triplice vano abbraccio,
ma la polisemanticità del linguaggio poetico permette fare questo ampliamento
interpretativo.
– – –
Ricordo quanta fatica ci costava,
nelle versioni dal latino, rendere in un italiano comprensibile la sintetica
città dell’originale. Qui per esempio la ‘frustra
comprensa … imago’ la “tre volte invano abbracciata immagine” occupa sì e
no mezzo verso, mentre una traduzione appena accettabile occuperebbe uno spazio
all’incirca doppio. Non fosse altro che per questo –cioè per fare toccare con
mano la differenza tra lingue anche vicine e le diverse loro caratteristiche
espressive– avrei voluto fosse conservata alle giovani generazioni l’esperienza
del latino e, per tutt’altre ragioni, anche del greco. Mi si obietterà che la
stessa o analoga esperienza la si può fare anche con una lingua ‘viva’. Vero,
ma il confronto fatto con una lingua non più attuale –ma non per questo
‘morta’– ci permette di concentrare l’attenzione sugli aspetti strutturali
della lingua, sfuggendo all’urgenza comunicativa che predomina di gran lunga
nell’apprendimento ‘funzionale’. Ma –insisterà l’obiettore– le lingue servono
anzitutto per comunicare, non per rimirarsi allo specchio. Ancora una volta:
vero, ma talvolta può essere utile, oltreché divertente, osservarle funzionare,
anche per rimanerne alla guida e non esserne sopraffatti, visto che la loro
malcelata ambizione è di essere loro a guidare noi semplici passeggeri.
– – –
Nella ripresa che Dante fa di
questa immagine virginiana si legge
O ombre vane, fuor che nell’aspetto!
tre volte retro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Nessuna similitudine a commento
del fatto, nessun rinforzo metaforico. Perché?
Anzitutto perché Dante non è
Virgilio, poi perché diverse sono le culture, diverso il momento storico.
Virgilio vive l’apogeo culturale della latinità, consapevole dell’equilibrio
raggiunto, che può attardarsi a ornare la sua invenzione con immagini
letterarie; Dante invece, che scrive incalzato dalla turbolenza dei suoi tempi,
taglia corto e si attiene a un realismo degli affetti che l’altro, il cantore
ufficiale dell’età augustea, non può che rivestire di letteratura.
Riflessione, queste, che fino a
pochi anni fa avrei ripudiato, attribuendole a un livello alto-colto, lontano
dalla mia ricerca sui fondamenti, anche linguistici, della cultura. Oggi non
vedo perché non coinvolgere in questa ricerca chiunque ne sia interessato e
così, ogni tanto, ci provo.
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Postini del 'come se'
Chloe
[398]
Un signore di età matura osserva una ragazzina saltellargli intorno. Un po’ lo cerca, un po’ lo evita con la
inconsapevole malizia dei suoi anni. Ne ha infatti dodici o tredici; le sue
movenze sono quelle di un cerbiatto che insegue la timida madre per le balze
sabbiose, impaurito da ogni stormir di fronda. Ma il signore non sembra avere
cattive intenzioni: non è una tigre feroce né un getulo leone pronto a
sbranarla. È solo un poeta in vena di scrivere eleganti versi e lei non ha
nulla da temere. Lasci quindi la madre, tanto più che è ormai ragazza da
marito.
L’ultima esortazione:
tandem desine matrem
tempestiva
sequi viro.
non è tuttavia del tutto
rassicurante. Orazio gioca qui con improvviso mutamento di tono; dall’innocente
immagine del cerbiatto al riconoscimento di uno stato di cose: il cerbiatto è
ormai una ragazza da farci all’amore. E in questa brusca virata verso la realtà
sta forse la trovata poetica che cambia d’un colpo la prospettiva di questa
piccola ma straordinaria poesia: sì,
ora la ragazza ha davvero ragione di temere, ma di se stessa.
Vitas hinnuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus aviis
matrem non sine vano
aurarum et siluae metu.
Nam seu mobilibus veris inhorruit
adventus foliis seu virides rubum
dimovere lacertae,
et corde et genibus tremit.
Atqui non ego te tigris ut aspera
Gaetulusve leo frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro.
(Mi sfuggi, Cloe come un
cerbiatto / che per i monti
impervii / cerchi la madre vanamente impaurita / dallo stormire della fronda //
Se infatti l’arrivo della primavera / scuote le foglie o un verde ramarro
s’agita tra i rovi / le tremano cuore e ginocchia. // Eppure non t’inseguo per
sbranarti / come una tigre feroce o un leone di Getulia, / lascia finalmente
tua madre / ora che sei buona per un uomo.)
Da qualche anno ho ripreso, con l’aiuto di un traduttore, le
letture abituali ai tempi del liceo, non più incalzato dagli obblighi
scolastici, ma per semplice diletto, e posso dire che di questo diletto non
ringrazierò mai abbastanza le circostanze che me lo hanno concesso; il ‘tempo
libero’, di cui oggi ho abbondanza, ma più ancora la scuola, che ha ampiamente
compensato i dispiaceri di allora con il piacere che i medesimi oggetti mi procurano
oggi. Temo che per un ragazzo dell’era dei telefonini e dei computer sia quasi
impensabile un pomeriggio passato in poltrona a leggere Orazio. Lo stesso ragazzo
potrebbe obbiettarmi che internet è assai più divertente e anche istruttivo di
Orazio perché vi si legge l’enorme ricchezza accumulata in altri duemila anni
di storia dell’umanità. E potrebbe anche avere ragione. Per sincerarsene gli
consiglierei di chiudere per qualche ora suoi apparecchi –che anch’io posseggo–
e di aprire le Odi di Orazio…
Ma già, lui non sa il latino…
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Postini del 'come se'
venerdì 15 giugno 2012
Novità fresche fresche da Cantalupo
- Forse è bene che cominciamo a pensarci.
- A che cosa?
- A un assetto planetario di sopravvivenza.
- Chi deve pensarci?
- Tutti.
- Sopravvivenza di chi?
- Delle specie ancora viventi.
- Assetto stabile?
- Sì, purché variabile.
martedì 12 giugno 2012
Come le foglie che nel tempo
[397]
Teatro greco a Dodona
Come le foglie che
nel tempo
fiorito della
primavera nascono
e ai raggi del sole
rapide crescono,
noi simili a quelle
per un attimo
abbiamo diletto del
fiore dell'età,
ignorando il bene e
il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dee ci
stanno a fianco,
l'una con il segno
della grave vecchiaia
e l'altra della
morte. Fulmineo
precipita il frutto
di giovinezza,
come la luce d'un
giorno sulla terra.
E quando il suo
tempo è dileguato
è meglio la morte
che la vita.
Da quanto mi risulta –e non
sono del tutto disinformato in materia–, pochi sono oggi i ragazzi che hanno
in mente, vuoi nell’originale o, come qui, in traduzione, questi versi di
Mimnermo o i molti passi della poesia greca o latina che per noi giovani ‘di
buona famiglia’, erano pasto quotidiano. Pasto, per molti già allora
indigesto, per altri più o meno tollerato. E anche se la tolleranza era
buona, non era affatto chiaro perché ci dovessero interessare i frutti
personali di gente vissuta più di due millenni fa. Specialmente quando questi
frutti venivano raccontati in un linguaggio palesemente artificioso e
improbabile. E infatti la gran parte di ciò che era penetrato nella nostra
mente nel giro di pochi anni ne usciva per non farvi più ritorno. Così per
esempio il greco, che linguisticamente ci era più lontano dal latino, l’ho
dimenticato quasi del tutto, e oggi me ne dispiace. Come mai mi dispiace,
visto che di quel poco che era rimasto, non ho più avuto occasione di
servirmi in tutti questi anni?
È possibile che alcune cose
giacciano inerti nelle nostre menti finché un evento fortuito non le faccia
riemergere e solo allora ci accorgiamo di averle avute, anzi di averle
ancora, seppure corrose dal disuso. E, quasi d’improvviso, scopriamo quanto
la loro occulta permanenza abbia modellato il nostro pensiero e il nostro
agire senza che ce ne rendessimo conto. Questo mi è capitato nei miei tardi
anni, e molte cose che avevo reputate inutili nella vita attiva si sono
rivelate essenziali per sostenere l’inattività degli anni successivi. Se non
fosse che per questo, le ore passate a decifrare e capire i ‘classici’ penso
siano state tra le più fruttuose della mia vita e mi permettono di vivere
oggi la mia inattività come una ricchezza che finalmente può rientrare in
circolo, per esempio attraverso questi ‘postini’.
Il costante innalzamento della
vita media lascerà alle future generazioni –purché l’attuale lo permetta–
sempre più tempo da trascorrere in vecchiaia, ed è abbastanza strano che di
questo problema la scuola non si voglia occupare. La vita materialmente
produttiva si fa, al contrario della vita media, progressivamente
accorciando: da un lato il tempo della formazione tende a invadere la
maturità dell’individuo, dall’altro la crescita dell’automazione e
dell’azione virtuale toglie terreno alla vita attiva e libera tempo per una
corrosiva inerzia… e la scuola, la società fanno poco o niente per affrontare
questo che è forse il più grave problema sociale dei nostri giorni. Ci
preparano per una vita attiva di sì e no una trentina di anni, lasciandoci a
noi stessi per un’altra trentina. Più che ai suoi tempi Mimnermo avrebbe oggi
ragione per piangere. Sarebbe però forse meglio se, anziché piangere, si
desse da fare perché anche l’inerzia del vecchio diventi produttiva.
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venerdì 8 giugno 2012
Si sta come d’autunno
[396]
Si sta come / d’autunno
sugli alberi / le foglie.
Per molti la personalità poetica di Ungaretti è legata alla sua produzione giovanile, in particolare a L’allegria, scritta negli anni della Grande Guerra.
I versi sopra riportati non mostrano tuttavia alcuna caratteristica che li differenzi da una normale coppia di settenari. Anche la metafora della precarietà non è particolarmente audace. Semmai colpisce la dolcezza dell’immagine autunnale a esprimere la crudezza della guerra, ma neppure quest’opposizione è ignota ai classici.
Anche il verso più citato di Ungaretti:
“M’illumino d’immenso”,
indubbiamente assai felice nel condensare in brevissimo spazio un’impressione di infinito, non mi sembra spalancare le porte della poesia italiana a impensate avventure letterarie. Come ogni novità, anche quella dell’impressionismo ungarettianno, per essere colta nella sua singolarità va riferita al suo UCL – in questo caso alla tradizione pascoliana, crepuscolare di quegli anni Non sono un critico letterario e tanto meno un approfondito conoscitore della lirica italiana; la mia preferita tra le poesie di Ungaretti è tuttavia:
In Memoria
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora che visse
Non so se a commuovermi tuttora sono i frantumati versi di Ungaretti o il loro contenuto, oggi, nell’era delle grandi migrazioni, delle disperazioni di massa, di Sarkozy e della Lega.
Si sta come / d’autunno
sugli alberi / le foglie.
Per molti la personalità poetica di Ungaretti è legata alla sua produzione giovanile, in particolare a L’allegria, scritta negli anni della Grande Guerra.
I versi sopra riportati non mostrano tuttavia alcuna caratteristica che li differenzi da una normale coppia di settenari. Anche la metafora della precarietà non è particolarmente audace. Semmai colpisce la dolcezza dell’immagine autunnale a esprimere la crudezza della guerra, ma neppure quest’opposizione è ignota ai classici.
Anche il verso più citato di Ungaretti:
“M’illumino d’immenso”,
indubbiamente assai felice nel condensare in brevissimo spazio un’impressione di infinito, non mi sembra spalancare le porte della poesia italiana a impensate avventure letterarie. Come ogni novità, anche quella dell’impressionismo ungarettianno, per essere colta nella sua singolarità va riferita al suo UCL – in questo caso alla tradizione pascoliana, crepuscolare di quegli anni Non sono un critico letterario e tanto meno un approfondito conoscitore della lirica italiana; la mia preferita tra le poesie di Ungaretti è tuttavia:
In Memoria
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora che visse
Non so se a commuovermi tuttora sono i frantumati versi di Ungaretti o il loro contenuto, oggi, nell’era delle grandi migrazioni, delle disperazioni di massa, di Sarkozy e della Lega.
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mercoledì 6 giugno 2012
Ficciones
[395]
Ho ‘scoperto’ Jorge Luis Borges
piuttosto tardivamente – verso la fine degli anni Sessanta. La prima reazione
all’indimenticabile lettura di Ficciones
fu musicale. È dal 1970 la compilazione della raccolta di brevi composizioni
pianistiche intitolata Inquisizioni musicali. Studi ed esercizi di archeologia
sperimentale con alcuni contributi alla restituzione di testi inesistenti e
un’appendice di 15 finzioni per violoncello solo, raccolta di dichiarata
ispirazione borgesiana nel suo essere insieme testo ed esegesi del testo.
Parimenti borgesiana è la quasi contemporanea stesura –questa volta verbale–
degli aforismi di Musica-Società, il mio primo tentativo in campo
filosofico-letterario. Negli anni seguenti il grande modello, senza essere
citato come in precedenza (anche Musica-Società recava il
sottotitolo di Inquisizioni Musicali II), ha continuato ad agire
sotterraneamente nella mia attività compositiva, per esempio nella rinuncia
all’invenzione primaria –che peraltro in Borges non è mai assente– in favore
di rivisitazioni di grammatiche e stili storici. Operazioni del genere non
erano certo una novità, neppure per i musicisti: Berio nella sua Sinfonia del 1966 riutilizza un intero
tempo di una sinfonia di Mahler, Strawinsky già da anni propone incursioni in
territori altrui, anche se le fa precedere da un impietoso lavoro di
destorificazione, quasi a restituire a un materiale indelebilmente segnato
dalla storia un’originaria, verginale in contaminazione, o anche per
sperimentare un modo di comporre, come si disse, ‘al quadrato’, il cui materiale
di base non fossero più i suoni in quanto tali, ma in quanto vocaboli di una
lingua morta. Nel caso mio penso che non si trattasse di acquiescenza a una
moda incipiente e neppure della ripresa di modi strawinskiani – quelli che
erano stati dominanti nella mia produzione giovanile (fino al 1957).
Frattanto la mia nuova attività di ‘operatore culturale di base’ mi aveva
portato a scrivere per la scuola primaria una serie di Storielle (Il lago delle storie riflesse,
1984), ognuna delle quali derivata da noti modelli letterari, tra cui
nuovamente Borges. È un ‘Borges’ formato ridotto, destinato a lettori appena
usciti dall’infanzia, di conseguenza assai meno complessi e soprattutto meno
impegnati letterariamente. Qualche anno dopo –siamo già ai primi del 2000–
ecco ancora l’ombra, a un tempo imponente e rassicurante, di Borges su un
gruppo di opere –Metaparole, Parabole, Epistole politiche, e
ora questi Postini– opere tutte costituite di testi brevi o brevissimi
(in media poco più lunghi delle Storielle),
questa volta però destinate a lettori adulti e non di rado trattanti
argomenti di problematica attualità. Certo –fuorché in alcune Parabole–
l’esecuzione si è staccata dal modello, non però per inseguire un’originalità
di cui mi è sempre importato poco, bensì nella consapevolezza di non avere né
le conoscenze nell’ampiezza di sguardo di quel grande, ma soprattutto di
vivere in tutt’altre condizioni culturali. Forse mi sarebbe piaciuto –non lo
nego– vivere in una situazione, come la sua, di splendido isolamento, al
servizio, non della letteratura universale, ma di una musica, forse non più
universale (credo che non si possano, nell’era del pop e del rock, pensare
musicalmente in termini mahleriani e neppure più darmstadtiani) ma
sufficientemente informativa da soddisfare le esigenze di chi ha vissuto
altre stagioni.
………
Questo doveva esser un
‘postino’ su Borges e ha finito per esserlo su di me. Non è che ho ceduto a
una tentazione che non mi appartiene. È semplicemente che mi è risultato
assai più semplice parlare di me anziché di Lui.
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Postini,
Postini del 'come se'
lunedì 4 giugno 2012
Don Chisciotte
[394]
Non credo di dir niente di stravagante
affermando che il Don Chisciotte
appartiene alla Weltliteratur, per
usare del termine goethiano. Parlo inoltre per sentito dire, poiché, non
essendo un buon lettore, non conosco un numero sufficiente di opere così qualificabili,
e di conseguenza il mio parere varrebbe poco o nulla se non fosse confortato
da voci ben più autorevoli. Per la verità, ora che lo sto rileggendo, mi
importa sempre meno di altre ‘autorevolezze’, bastandomi quella sua, di
Miguel de Cervantes Saavedra.
In che senso un postino sul Don Chisciotte rientra tra questi del come se? Dicendo ‘come se’ il parlante
istituisce un secondo piano di comunicazione legato al piano principale da un
rapporto di analogia se non di omologia. I due piani si rinforzano a vicenda
e spesso costituiscono un espediente retorico di grande efficacia,
soprattutto se il secondo piano, quello metaforico, è rappresentato da
elementi che nulla hanno a che fare con quelli del primo piano fuorché nel
rapporto di omologia (o analogia). Anche il Don Chisciotte si dispone su più piani, crea anzi più mondi
paralleli, simile in questo a certi modelli della fisica di oggi, per cui la ‘realtà’
non è monoplanare come nei modelli più o meno tradizionali della fisica ‘classica’,
ma multiplanare, consistente cioè di più mondi paralleli ma non comunicanti
tra loro. La realtà di Don Chisciotte
non è quella della nostra quotidianità, ma quella di una quotidianità
leggendaria, fiabesca, filtrata attraverso una cultura che ha perso la sua,
se mai l’ha avuta. E non è la quotidianità del poeta, in cui quello si rifugia, al riparo dalla sgradevolezza
del reale, perché Don Chisciotte, quella sgradevolezza, nonché evitarla, se
la tira addosso in quantità difficilmente sopportabile se non fosse per la sua
follia cavalleresca. Quanto siamo lontani dall’Es war als del romantico Eichendorff, la cui irrealtà galleggia, altrettanto
fiabesca, in una notte di luna. Cervantes non è un romantico –la cultura del
suo tempo non glielo avrebbe permesso–, e quindi anche il suo Don Chisciotte non può esserlo.
Eppure dalle pagine del grande libro spira un’aria di innocente candore che
raggiunge anche la popolaresca, prosaica presenza di Sancho Panza; e, vorrei
dire, perfino la brutalità impietosa della quotidianità reale, che Cervantes
riveste sapientemente di una comicità che la raccorda alle stravaganze del
protagonista.
Abbiamo così, per il romanzo, una struttura
portante a tre piani: Don Chisciotte, Sancho Panza, il mondo reale, una sorta
di contrappunto a tre, del quale Cervantes è padrone assoluto. Come reagisce
il lettore moderno a questa prova di abilità, a questo intreccio di piani,
ciascuno dei quali portatori di una sua ‘verità’?
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Postini del 'come se'
domenica 3 giugno 2012
La vida es sueño
[393]
È il titolo del dramma
più celebrato di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Il tema degli
indistinguibili tra vita e sogno e comune nelle varie letterature, sia
antiche che moderni, ma fa anche parte dell’esperienza di tutti, come quando,
risvegliati da un sonno profondo, restiamo per qualche tempo in dubbio se ciò
che abbiamo appena sperimentato fosse sogno o realtà.
A me è capitato di
interrogarmi per mesi sull’identità di una persona che ero convinto di aver
frequentato per molti mesi e che d’un tratto era scomparsa senza che potessi
ricordare chi fosse e neppure se fosse effettivamente esistita.
Il primo di questi
postini del ‘come se’ comincia con un Es
war als… (era come se), mantenendo poi l’irrealtà dell’immagine lungo
tutta la poesia senza mai neppure sfiorare il piano di una reale concretezza.
Calderón pone decisamente l’equazione vita = sogno e, così facendo, esce
dalla metafora come mezzo espressivo per entrare in un ambito filosofico nel
quale metafora e realtà coincidono. La forza ‘fondante’ del verbo ‘essere’
toglie ogni velo di incertezza, ogni traccia di ‘come se’, e dichiara
inequivocabilmente l’identità tra vita e sogno. Il linguaggio verbale non ha
però la proprietà simmetrica del linguaggio matematico, per cui, ‘se vita è
sogno’, anche ‘sogno è vita’. Le due espressioni non si equivalgono del tutto
perché le parole ‘sogno’ e ‘vita’ non hanno esattamente lo stesso significato
nei due casi. Più che non l’aspetto denotativo cambia l’alone connotativo che
le circonda. “La vita è sogno” suona come un’affermazione addirittura
metafisica che trasporta la realtà della vita in un mondo di irrealtà
onirica, quasi un iperuranio platonico; “il sogno è vita” ha una sfumatura
concessiva, come se dicesse “Anche
il sogno è –fa parte della– vita”. Mentre i numeri sono semanticamente
neutri, le parole non lo sono, anzi variano di significato addirittura per un
cambio di posizione.
Il dramma
filosofico-teologico di Calderón difficilmente avrebbe potuto intitolarsi El sueño es vida, a parità di
contenuto. Lo avrebbe impedito
la direzionalità del movimento: ascensionale nel passaggio dalla vita al
sogno, rivolto alla terra nell’altro caso. Questione del tutto periferica e
inessenziale – si dirà– quella da me posta per un’opera del peso di La vida es sueño. D’accordo, ma forse
l’unica dove poteva avere senso l’intervento di un troppo superficiale
frequentatore della lingua spagnola e delle sue molteplici letterature.
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