giovedì 29 dicembre 2011

Il paradiso per me


Una foto della salita dei Parioli del 1885,
cioè un bel mezzo secolo prima di questi ricordi di Boris
[264]
Erano gli anni prima della guerra. Andavo ancora alle elementari, ma doveva essere in un periodo di vacanze –estive o primaverili– perché al mattino presto ricordo che mio padre mi accompagnava a prendere le farfalle a Villa Balestra, una villa nobiliare da lui amministrata, oggi quasi interamente costruita; ma paesisticamente tuttora visibile da Viale Tiziano e dalla Via Flaminia all’incrocio col Viale delle Belle Arti. Abitavamo appunto a Via Flaminia, proprio di fronte alla Villa, da cui vedevo spesso scendere le pecore fino al cancello sotto casa. Per raggiungere la parte alta, al di sopra della grande roccia, bisognava però passare da dietro, dal cosiddetto Arco Oscuro, un breve corridoio scavato nella roccia e che collegava il Viale delle Belle Arti alla salita dei Parioli. Qui, presso la Casa del Custode, si trovava l’ingresso principale alla Villa, e di questo ingresso mio padre aveva la chiave. Ed eccoci all’interno, luogo di sogno per un bambino di otto-nove anni, ma che ancora lo è, letteralmente, per un anziano di più di ottanta. Una via appena sterrata aggirava il costone roccioso che vedevo dalla finestra della mia camera e raggiungeva i prati della sommità. Il costone ospitava nei suoi buchi una coppia di gheppi, più tardi sostituita da Biancamaria la civetta. Oggi è molto se vi sosta qualche passero di passaggio. Ma il paradiso per me erano i prati della sommità, orlati da alcuni pini, cipressi e, poco sotto, dalle imponenti pale dei fichi d’India. Questo era il regno delle farfalle, tutto un volteggiare di Pieris brassicae, Pieris napi, Pontia daplidice, Vanessa cardui, Pyrameis atalanta e, sopra tutte, la splendida Papilio machaon, il macaone che, per quanto frequente, continuava a essere oggetto di desiderio sempre rinnovato. Gli era secondo sola il quasi congenere Iphiclides podalirius dall’elegante volo planato, interrotto soltanto da brevi, nevrotici colpi d’ala.

Ancora le conoscevo solo di vista. Chi fossero, come si chiamassero, lo ho appreso solo più tardi, poi per molti anni i miei interessi si sono rivolti altrove, al più solido mondo dei coleotteri. Ma l’immagine di quei prati assolati sorvolati da quelle meravigliose creature variopinte che l’evoluzione aveva prodotto per la sola gioia di quel bambino… no, non era stata l’evoluzione a procurargliele, era stato l’anziano signore che gli camminava accanto… questa immagine non l’avrebbe più abbandonato.

mercoledì 28 dicembre 2011

I 'margherini'

[261]
Erano circa trecento, e noi eravamo tre, Paola, Celestino ed io, il che voleva dire un rapporto di uno a cento, decisamente sproporzionato per una lavoro di formazione sulla Pratica musicale di base, lavoro affidatoci dal Teatro La Fenice e dal Comune di Venezia in 1977-78. Erano previsti tre cicli di quindici incontri, il primo dei quali da svolgersi nelle Sale Apollinee del Teatro (gli altri due si sarebbero tenuti altrove). Gli iscritti provenivano dalle varie province del Veneto, la maggior parte del tutto ignari di musica. Perché si trovavano lì? Forse li animava la speranza in una qualificazione facile, a buon mercato (i corsi erano gratuiti).

Alla fine del terzo ciclo erano rimasti un centinaio occupati in una decina di Centri Musica, sparsi per il territorio oltreché in un certo numero di scuole come ‘operatori musicali di base’.

Ma non di questo volevo parlare nel presente postino bensì degli indimenticabili giorni trascorsi a Venezia con i ragazzi del corso, in particolare con i dieci del ‘supergruppo’ e la ventina dei ‘margherini’. Avevamo infatti suddivisi i trecento in gruppi da trenta-trentacinque elementi, ciascun gruppo guidato da un ‘operatore del supergruppo’. Questo non era stato ‘scelto’ secondo un qualche criterio selettivo, ma solo accettato su richiesta. A ognuno dei superoperatori era affidata la preparazione del proprio gruppo. Per rendere possibile la cosa, il ‘supergruppo’ sarebbe stato preparato al mattino alle esperienze da condurre il pomeriggio con la ‘base’ dei corsisti. Paola, Celestino ed io, oltre a curare la formazione del supergruppo, giravamo nelle ore di corso per i vari locali messi a disposizione dagli enti, osservando più che intervenendo per poi rileggere l’esperienza il mattino seguente. Tra i gruppi di base ci è rimasto particolarmente impresso quello dei ‘margherini’. Erano i famigerati ‘anni Settanta’, i cosiddetti ‘anni di piombo’ che, accanto al piombo, videro anche l’espunto vivo di un mondo giovanile pensante e critico, non ancora rinunciatario e ipnotizzato da una musica asservita al consumo. Era anche di moda il gesto della P38, simbolo di anarchia e antiautoritarismo, il gesto con cui i ‘margherini’ accolsero Paola il primo giorno di corso. Non era però passata mezz’ora che dell’autorità e della sua contestazione non c’era più traccia. Era rimasta un’amicizia che durò lungo tempo dopo la fine dell’avventura veneziana, amicizia che coinvolse anche me e alcuni ragazzi di Cantalupo. Alcuni dei corsisti, in prevalenza del gruppo dei ‘margherini’, vennero infatti a trovarci nei mesi seguenti e seguirono per un certo tratto le vicende del Centro Musica in Sabina, ormai maturo per la trasformazione in Centro Metaculturale.

E come andò a finire? – domanderà qualcuno.

A corsi conclusi una nostra delegazione mista di docenti e ‘neooperatori’ chiese agli enti promotori, cioè il Teatro La Fenice, il Comune e la Provincia di Venezia, nonché alla Regione Veneta di dare un seguito all’esperienza offrendo agli ex-corsisti appropriate occasioni di lavoro. Furono così istituiti un certo numero di Centri Musica sul territorio veneto, alcuni dei quali rimasero attivi per alcuni anni dopoché il Teatro e la Regione avevano ritirato i remi in barca tagliando i finanziamenti. I tempi stavano cambiando, il pubblico cedeva al privato e lo stato sociale si avviava a essere un ricordo. Il berlusconismo era alle porte. Gli anni di piombo avevano soffocato i contemporanei anni di argento. Avverrà mai che quel ricordo torni a farsi realtà?

martedì 27 dicembre 2011

Un ben strano affare

[260]
È un ben strano affare, la memoria. Spesso ci sembra di averla perduto, ed ecco rispuntarla dalle nebbie di un passato che credevamo definitivamente cancellato. O, viceversa, ci tradisce su cose quotidianamente ripetute. Il ben noto fenomeno della ‘rimozione’ ci avverte che esistono parti del cervello dove determinate esperienze, che vorremmo aver dimenticato, sono rimaste impresse, pronte a ripresentarsi alla memoria quando meno ce l’aspettiamo.

La memoria gode quindi di una certa autonomia all’interno della nostra mente e spesso non ci è amica, sia rifiutandosi quando più ci servirebbe, sia ossessionandoci quando ne faremmo volentieri a meno. In vecchiaia ci regala una seconda vita, o meglio una replica, anche se un po’ sfocata, di quella già vissuta. E qui è in nostro potere respingere gli episodi spiacevoli ovvero spuntare le spine della spiacevolezza, mentre nulla ci impedisce di richiamare immagini e sensazioni gradite quante volte vogliamo, facendo della vita ricordata una copia abbellita dell’originale. Non so se il merito vada riconosciuto alla memoria o alla vecchiaia o alle due congiuntamente, nel qual caso anche il nostro ‘grazie’ va in egual misura all’una e all’altra.

sabato 24 dicembre 2011

Celestino e Miele


[331]
Gli unici cani cui ho voluto bene.

Di Celestino credo di aver già parlato. Merita tuttavia che ne riparli per la sua eccezionale bruttezza. Piccolo, tracagnotto, gambe corte e storte, pelo rasato grigio scuro a macchie nere, da licaone, occhi l’uno blu e l’altro rosso, così, salvo le dimensioni, immaginavo il mastino di Baskerville.

L’altro, Miele di nome e di fatto, non poteva certo dirsi brutto, se non altro per il pelo, appunto color miele e garbatamente ondulato. Abbandonato per strada e giunto a noi in fin di vita, si era rapidamente ripreso mostrandoci tutta la gentilezza del suo carattere. Era divenuto grande amico di Michelino, il simpatico cagnetto del nostro vicino, chiassoso e invadente quanto Miele era silenzioso e riservato. Fino a un paio di anni fa camminavo ancora con una certa disinvoltura, accompagnato da Miele e Michelino che mi caracollavano accanto, Michelino senza particolari riguardi per la mia incipiente instabilità, Miele sempre attento e riguardoso, come se capisse.

Celestino era morto vecchio, molti anni prima; Miele è morto giovane, d’improvviso, e ancora ne sentiamo la mancanza.

venerdì 23 dicembre 2011

Ein Häuflein Mist

[330]
Wer auch du bist,
bleibst, mangelnd an List,
deines Lebens Frist
nur das, was du bist,
ein armer Christ,
ein Häuflein Mist.

(Hab’es noch einmal versucht,
aber auf welchem Niveau?)

Qualunque cosa tu sia
se non hai furbizia,
resti tutta la vita
solo ciò che sei,
un povero cristo,
un mucchietto di sterco.

(Ci ho provato ancora una volta,
ma a che livello!)

giovedì 22 dicembre 2011

Allora perché?

[329]
Ieri ho provato a scrivere alcuni versi in italiano. Mi è stato difficilissimo. Ricordo che non lo era altrettanto scriverli in tedesco, lingua nella quale però avevo qualche difficoltà con la prosa e il discorso parlato. Ora, da qualche anno ormai, ho rinunciato quasi del tutto alla lingua materna e, parallelamente, a ogni tentazione poetica. Da che questa asimmetria espressiva?
Quanto al tedesco, hanno certo giocato un ruolo le mie predilezione letterarie che mi hanno portato fin da bambino a leggere poesie e racconti in quella lingua, più tardi a dedicarmi quasi esclusivamente a Goethe e Thomas Mann. Se a ciò si aggiunge la mia quasi maniacale passione per il Lied –Schubert soprattutto– e tutto risulta chiaro.
Quanto alla mia lingua paterna, l’unica lettura poetica che mi ha accompagnato costantemente nel pensiero è stata ed è la Divina Commedia, a cui, nonostante le tremende difficoltà ad esempio del Paradiso, ritorno spesso con immutata emozione. Conosco poco il romanzo italiano moderno, sono però un buon lettore di saggistica, soprattutto scientifica, per la quale però mi avvalgo più che altro di traduzioni dall’inglese (lingua che non conosco).
Ma ritorniamo ai miei traballanti versi in italiano, resi ancora più incerti dall’uso non richiesto della rima. In uno dei prossimi postini mi riprometto qualche riflessione su questo ingrediente dell’espressione poetica che Leopardi giudicava in essenziale al verso italiano.
Perché misurarsi con questo artificioso ostacolo aggiuntivo, quando già di per sé la concentrazione propria della scrittura in versi costituisce una difficoltà non indifferente per chi voglia evitare il rischio del ridicolo. (Parlo in generale, non certo del mio sporadico tentativo che questo rischio non si è curato di evitare). Ed effettivamente il ricorso alla rima suona oggi come la sfida di un gioco enigmistico che si accetta dopo aver perso altre sfide... Allora perché? Perché affrontare la sfida più grande, dove la sconfitta è quasi certa?
Per parte mia l’ho affrontata sul terreno neutro di una lingua che da anni aveva perso per me ogni referenzialità comunicativa, chiuso ormai in un discorso privato senza dirimpettaio. L’italiano mi serve ancora per parlare a un tu. E a un tu in genere non si parla in rima.

mercoledì 21 dicembre 2011

Il lusso di affezionarsi alla propria casa


Aiko Musashi ricupera oggetti personali dalla sua casa distrutta in Kesennuma,
il 18.3.2011 (Paula Bronstein/Getty Images)

[328]
Questa mattina [1] ha telefonato Thomas da Berlino, comunicandoci di essersi insediato, con i libri portati da Cantalupo, comodamente nel nuovo appartamento da lui preso in affitto. Ho notato negli ultimi anni un suo crescente attaccamento alla casa e agli oggetti in essa contenuti. È una forma di attaccamento che si sviluppa con l’età, ma non necessariamente in tutti. C’è anzi chi manifesta insofferenza per la permanenza prolungata in una stessa abitazione. Sembra che questa insofferenza fosse quasi patologica in Beethoven. Paola, quando era più giovane, credo che avrebbe volentieri lasciato la casa e il paese di Cantalupo per un’abitazione cittadina, per esempio a Firenze. Ora la vedo contenta della nostra dimora, che lei non si stanca di rendere più accogliente e fantasiosa.

Molte famiglie, soprattutto delle zone più soggette a uragani, inondazioni, terremoti, non si possono permettere il lusso di affezionarsi alla propria casa. Probabilmente hanno sviluppato una cultura immunizzante verso questi malanni. Almeno a noi fa comodo pensare che sia così. A salvaguardia dei nostri sonni.

[1] Nota della redazione: il postino è stato scritto in Agosto 2010

martedì 20 dicembre 2011

Armonica eleganza

[327]
Tu credi forse di piacermi, gatto,
con quel tuo corpo sinuoso e snello,
credi di poterti fare bello
nel contorno del tuo disegno astratto?

Pensi che le tue ipocrite moine,
l’armonica eleganza del tuo stare,
piccola divinità da adorare,
possano d’improvviso farmi incline

a tollerare – tre le simpatie
umane, biologiche e divine
che da tempi lontani sono mie

e ravvivano la mia tarda età
con divenire eterno alle sue vie–,
l’aggiungersi della gattinità?

Cantalupo, 4 Agosto 2010

lunedì 19 dicembre 2011

Un prodotto del tempo

[326]
Non è un tema che mi appassiona… Tuttavia, qualche parola ancora sulla vecchiaia.
Rileggendo il postino precedente, sento un po’ il sapore di sciroppo per la tosse che spesso hanno le parole dei vecchi. È forse un sapore ineliminabile come l’aura di saggezza che li circonda. Rinuncerei volentieri all’uno e all’altra, ma è come dire che uno rinuncerebbe agli anni che ha. Sciroppo e saggezza sono un prodotto del tempo, non c’è che rassegnarcisi.
È invece di qualche interesse osservare come anche la nostra facoltà più ‘personalizzata’, il pensiero, sia strettamente legata alla fisiologia del vivente. Non pensiamo più come da giovani e neppure come persone di mezza età. Pensiamo come si pensa da vecchi, alcuni caratteri del nostro pensiero sono comuni a quelli della nostra stessa età. Abbiamo vissuto nella convinzione di star costruendo un’individualità assolutamente unica lungo una vita anch’essa unica e irripetibile, e ci ritroviamo, nei casi peggiori con l’alzheimer, in quelli più fortunati con una mentalità che i ‘non vecchi’ giudicano antiquata, incapace di comprendere l’attualità. Guardandoci da fuori –cosa che talvolta ancora mi riesce– mi vedo anch’io così:
  • da musicista non capisco il mondo del rock e della canzone,
  • da uomo della strada non capisco la crescita infinita,
  • da elettore non capisco la maggioranza degli elettori,
  • da cittadino europeo non capisco l’Europa,
  • non condivido il capitalismo, la morale corrente, la meritocrazia,
  • possiedo un computer ma non lo so usare,
  • mi piacciono i film polizieschi ma non li capisco,
  • approvo la libertà sessuale ma non la eserciterei,
  • osservo il disimpegno e l’apolicità dei giovani ma non li approvo,
  • sono tuttora dalla parte dei giovani, anche se non li sento più dalla mia,
  • quasi tutto ciò che piace a loro non piace a me,
  • quasi tutto ciò ce piace a me non piace a loro,
………
Sono irrimediabilmente vecchio, ma non vorrei non esserlo.
Forse perché mi è impossibile non esserlo.
Forse perché non m’interessa.
Forse perché mi piace vedere la mia vecchiaia farsi come un tempo la mia infanzia, la giovinezza, l’età matura.
“Credi di aver fatto tutto da solo?” “No, ma anche la mia vecchiaia, come quella di tutti, siamo in tanti a farla”.

domenica 18 dicembre 2011

Non so se importi

[325]
Ogni tanto mi capita di riflettere a quante attività la vecchiaia mi ha costretto a rinunciare. Oltre a quelle specificatamente fisiche, tra cui la difficoltà nell’uso delle gambe è quella più limitante, avrei, fino a pochi anni fa, giudicato insopportabile l’impossibilità di
  • comporre
  • suonare
  • distinguere i suoni
  • scrivere di musica
  • insegnarla
  • scrivere testi in tedesco
  • raccogliere coleotteri
  • classificarli
  • viaggiare
  • guidare la macchina
………
Invece, non solo tutte queste cose non posso più farle, ma, quel che mi appare incomprensibile, non me ne importa quasi niente. Non so se agli alberi importi perdere le foglie; non credo, ma in ogni caso dovrebbero sapere –e forse confusamente lo sentono– che la perdita è solo temporanea e che una nuova giovinezza sta nascosta da qualche parte. Mentre l’anziano sa che non c’è nulla di nascosto, tutt’al più qualche residuo non consumato, testimonianza archeologica di un passato irrecuperabile. Questo mi dice la penna che scorre sul foglio, gravida ancora di parole non scritte…
Io dal canto mio, resto indifferente davanti a tanta rovina, contento di questi postini, su cui so di poter contare, contento di quanto mi circonda, persone e cose, di ciò che, nonostante tutto, riesco ancora a fare. La vecchiaia e forse anche la morte fanno parte della vita e non c’è ragione di amarla di meno.

mercoledì 14 dicembre 2011

... in sensibile calo

[493]
Se anche decidiamo quindi, come la maggioranza di noi ha già fatto, per la competizione, diamole delle regole ferree a un tribunale internazionale con pieni poteri repressivi per garantirne l’applicazione: di fatto, una dittatura del potere giudiziario. E che ne facciamo della libertà?

Per parte mia, non me ne preoccupano troppo perché, per quanto anch’io affascinato dalla parola, me ne sfugge il concetto. Non è tanto la perdita di una libertà invero più gridata che convinta cui intendo riferirmi, quanto al modello di sviluppo al quale affidare il nostro futuro, sempreché la cosa ci interessi. Il modello concorrenziale adottato dalla specie umana e, con forti limitazioni, anche da molte altre, si basa essenzialmente sull’eliminazione del concorrente, ma per simmetria, altrettanto sull’eliminazione nostra. Non vedo comunque una ragione che in questo gioco debba favorire la nostra specie rispetto ad altre. Oggi vediamo, è vero, l’estinguersi di un gran numero di specie animali e vegetali –il più delle volte ad opera dell’uomo– mentre la specie nostra cresce a dismisura, ma le sue probabilità di sopravvivenza, secondo attendibili studi, sono in sensibile calo. E non solo per i guasti ecologici da noi prodotti, ma anche per la meccanica interna del modello concorrenziale, sempre meno garantito nei confronti di un finale catastrofico.

martedì 13 dicembre 2011

Competizione o collaborazione?

[492]
Se questa domanda mi fosse stata posta fino a ieri, la mia risposta sarebbe stata senza esitazione: collaborazione.

Oggi la risposta resta la stessa con in più un’esitazione. Esitazione dovuta a che?

Da un lato c’è l’autorità di Darwin che, anche a voler disconoscere il principio di autorità, un certo peso ce l’ha, e non indifferente. C’è poi il peso della società industrializzata, quasi unanime nella sua scelta per la competizione. E, ancora, l’ideologia del ‘progresso’, del ‘sempre di più’, della ‘crescita illimitata’, l’istinto –se vogliamo chiamarlo così– del dominio, della sopraffazione.

Dall’altro lato c’è poco più che l’ideologia della fratellanza universale con le sporadiche emergenze di vantaggi locali, un fatto di pensare a un’associazione di beneficenza. Ma allora perché esito ancora ad allinearmi decisamente con i fautori della competizione?

Proprio perché riconosco le ragioni vincenti della competizione e ne temo le conseguenze su di un pianeta piccolo come il nostro e una specie aggressiva come la nostra.

lunedì 12 dicembre 2011

... una garanzia indiscutibile...



Pablo Araújo © 2010
[491]
La sovrabbondanza di una cosa ci rende insensibile ad essa. Nello stesso tempo però ci la rende indispensabile. Viviamo in un mondo virtuale di immagini di cui non possiamo fare a meno, ma che ottundono in noi il senso della realtà, al punto che ci è più facile dubitare di questa che dell’immagine. “L’ho visto alla televisione”: una garanzia indiscutibile, anche perché nessuno oserebbe discuterla. La scuola non ci ha abituato a farlo così come non ci ha abituato a indagare sulle ‘verità’ che essa trasmette e neppure sul concetto stesso di verità. Nelle classi superiori permette forse che qualche dubbio si insinui, ma quando ormai è tardi e la mente ha introiettato l’assolutezza di quel concetto e finisce per fare anche del dubbio un dogma paralizzante qualsiasi iniziativa umana. L’azione più devastante del relativismo ‘assoluto’ è proprio questa: il essersi identificato con l’ASSOLUTO tout court, svuotando di senso ogni proposizione e riducendo a insulso gossip ogni tentativo di comunicazione tra umani. Non so se e quanto IMC sia in grado di aggirare questo ostacolo, so solo che ci sta provando: il risultato dipende esclusivamente dall’assenso che il pensiero collettivo vorrà concederle.

domenica 11 dicembre 2011

... come l'acqua...

[490]
Lo stesso quadro del postino precedente, ma dietro ogni bambino seduto intorno al grande tavolo c’è una fila interminabile di altri bambini, e non solo bambini: anche adulti, giovani che sembrano vecchi, i vecchi però sono morti anzi tempo, di malnutrizione, di AIDS, di una raffica sparata da un bambino di sì e no dieci anni.

Di immagini di guerra ne vediamo ogni giorno, nei documentari, nelle fiction, anche non distinguiamo nemmeno più tra un reportage e un’accurata, tecnicamente pregevole ricostruzione, né c’importa granché distinguere. Anzi, quel bambino di cui al postino precedente tutto sommato ci colpisce di più che non la notizia di una nuova guerra scoppiata in qualche parte dell’Africa o dell’Asia. È sempre l’immagine ad avere la prevalenza sul fatto. E ancora: è il caso singolo più che non la tragedia collettiva a coinvolgerci emotivamente: in quello riusciamo a immedesimarci, questa resta tutt’al più ‘notizia’, e le notizie scorrono su di noi come l’acqua su di una superficie in pendenza.

È questa la sensibilità che dovrebbe salvarci dall’autoestinzione?

venerdì 9 dicembre 2011

una tavolata molto grande

[489]
Immagino una tavolata molto grande e tutt’intorno bambini di ogni razza e colore intenti a mangiare allegramente e con gusto, ciascuno i suoi cibi preferiti, sicuro che ve ne saranno anche per il giorno dopo e per quello dopo ancora: ridono, scherzano, la vita è lì, davanti a loro, non c’è che da afferrarla con la forza propria dell’età, certi dell’oggi come del domani…
Ma chi è quel bambino accucciato per terra, in disparte, dai grandi occhi privi di sguardo di sorriso, senza più la forza neppure di desiderare il cibo perché non si ricorda come si fa a mangiarlo? Voi guardate, perché siete presenti e quel bambino vi sta proprio di fronte…

… ma come può, il mondo, restar insensibile e col ciglio asciutto, come può non correre da lui a salvargli la vita con una briciola dell’abbondanza che lo circonda? …

Ma è solo il quadro della televisione e le immagini che vi scorrono su hanno il solo scopo di spremerti qualche centesimo a asciugare così il tuo umido ciglio. Quel bambino morirà e con lui milioni di altri, ma tu potrai dormire tranquillo di aver fatto quanto in tuo potere…

giovedì 8 dicembre 2011

… vince di solito…

[488]
Ho ripreso nel postino precedente una metafora già utilizzata in una storiella per bambini scritta nel 1984. Posso anche dire che ho incontrato due volte lo stesso pensiero e allora non è molto importante che il pensiero sia mio o di un altro. Ciò che conta è il rafforzamento del pensiero attraverso la ridondanza in contesti diversi. Se il contesto fosse lo stesso o molto simile, avremmo la semplice ripetizione di una sequenza stimolo–risposta che aggiungerebbe poco o niente alla sua prima comparsa.

Vale la pena comunque osservare la molto maggiore incisività dell’originale, in cui si riscontra qualcosa come il piacere di una scoperta, di un’invenzione. Probabilmente un’invenzione analoga si è avuta più volte nel mondo, senza però che io lo sappia. Non conta ciò che accade ma il sapere che accade. Non il fatto, ma l’informatio del fatto. Su questo equivoco si fondano molti scambi comunicazionali del nostro UCL. In alcuni casi siamo coscienti dell’equivoco perché lo vediamo far parte di una finzione concordata (cinema, teatro, letteratura narrativa); altre volte lo subiamo, più o meno consenzienti, come, quasi di norma, nel gioco politico e allora vince di solito chi gioca più sporco.

martedì 6 dicembre 2011

Un gioco infinito

[487]
Mentre il mio rendimento mentale è negli ultimi tempi sensibilmente diminuito nel suo complesso, vi sono ancora momentanei ritorni di fiamma, sempre però innescati dal contatto con menti giovani che evidentemente hanno sovrabbondanza di combustibile. Mi capita con Valentina, il cui pensiero è singolarmente affino al mio. Mi capita spesso con Fernando, talora anche con Oliver, con gli amici del Centro e, ovviamente con Paola. Mi sembra, in questi casi, di incontrare me stesso, non perché io li abbia istruiti (non credo di aver mai istruito nessuno), ma perché ci siamo trovati nello stesso pendio e ce ne siamo accorti. Questa convergenza con un pensiero di tanto più giovane del mio è ciò che lo ravviva dandomi talora l’impressione di essere ancora io a produrlo quando non si tratta che di un rispecchiamento. Un rispecchiamento –mi dicono– in cui dovrei riconoscere tratti anche di me stesso, mentre io credo di ravvisare tratti di altri ancora.

Forse il pensiero non è che riconoscimento, riscoperta in noi stesi di pensieri già riflessi in un gioco infinito di specchi affrontati.