domenica 31 luglio 2011

Una cinquina teologale (e v)

[154]
Talora penso che ogni cosa sia anzitutto, forse esclusivamente un segno. Se la realtà di Dio fosse semiotica, questo basterebbe ad affermare che tutto lo è. Un uccello che vola sarebbe segno di un “uccello che vola” che, a sua volta sarebbe segno di un ““uccello che vola””, e così via, all’infinito, a meno che non intervenga l’arresto e con lui il ‘collasso’ da segno a realtà. Sarebbe così un più o meno arbitrario ‘arresto’ l’artefice del mondo, quello che altri chiamano “Dio”. È chiaro che si tratta di una fantasia semiotica senza fondamento. Mi domando però qual è il fondamento dell’ipotesi che dal segno ‘uccello che vola’ ci permette di raggiungere la realtà di un uccello che vola. Ricordo che questa domanda mi ossessionava fin da giovane, ma che non ho mai osato darle importanza per non cadere nel ridicolo. Oggi però, che questa paura mi ha abbandonato, l’affido a questi ‘postini’ che raccolgono le insensatezze che un anziano si può permettere per il solo fatto di esserlo. Dal resto non sono neppure sicuro che non appartengano alla medesima categoria anche i famosi teoremi di Gödel, solo che lui, quando li ha formulati, era ancora quasi un ragazzo e io continuo a dubitare a ottanta tre.

[Fine della cinquina teologale]

sabato 30 luglio 2011

Una cinquina teologale (iii)

[153]
Dio, un problema semantico? Tradizionalmente il problema ontologico per eccellenza: dove cercare un fondamento per l'essere se non nell'idea di Dio? Per secoli, millenni è stato così, poi, con Cartesio, il principio fondante si è trasferito sull’io, presto però sostituito dal anonimato del ‘fenomeno’, poi dell’Io idealistico. Affezionate a un Dio-persona sono rimaste le religioni, anche se non tutte. Sembrerebbe un anacronismo nell’ora tecnologica dove perfino le immagini, le voci, i pensieri vagano nello spazio senza legarsi a nessun corpo, eppure è un fatto che gli uomini non riescono a staccarsi da uno ‘stile di pensiero’ che gli ha accompagnati per tanti anni anche senza riscontro alcuno nella realtà. So benissimo che su questo punto non concorderanno i fedeli di qualsiasi religione, per i quali il mondo stesso testimonia della presenza di Dio, è cioè segno prima ancora che sostanza e come tale fa di Dio un problema semiotico, risolvibile attraverso la sola interpretazione. Sia che questa sia pubblica garantita da un’istituzione come la Chiesa –presso i cattolici– sia ‘privata’ garantita dalla coscienza del singolo –presso i protestanti–, è sempre l’interpretazione, non la lettera, ad avere l’ultima parola.

venerdì 29 luglio 2011

Una cinquina teologale (iii)

Cristo tenuto da uomini seminudi (1940-1941) – Marsden Hartley, 1877 - 1943
[152]
Alcuni anni fa ho costruito, a mio uso e consumo, un'interpretazione 'aberrante' della figura di Cristo, interpretazione cui non attribuisco alcun valore di verità, che tuttavia ritengo 'possibile' al pari di altre, più accreditate. L’ho esposta più volte, non ricordo dove; eccone comunque una versione sintetica.

Il Dio della Bibbia, Jehova, aveva ormai passato il segno: crudele, giustiziere, vendicativo, corruttibile, la gente ne aveva abbastanza. Ma non sapeva come liberarsene. Per salvare il suo popolo e tutta l’umanità un giovane palestinese ebbe un’idea: se avesse potuto dimostrare di essere figlio ed erede di Jehova e gli stessi uomini avessero eliminato, sarebbero divenuti liberi e autonomi. Organizzò quindi il proprio sacrificio e vi si sottopose di propria volontà. Solo che gli uomini non capirono e resero vano il suo gesto facendo di lui il nuovo Dio. Gesù, intelligentemente aveva visto un problema semantico là dove i suoi contemporanei vedevano un problema ontologico, anzi teologico. E così la pesante eredità biblica, anziché essere eliminata, ricadde tutta intera sulle vittime.

giovedì 28 luglio 2011

Una cinquina teologale (ii)

[151]
Tra le religioni 'pericolose' ho nominato per prima quelle monoteiste, e non solo per i danni prodotti al genere umano nel corso della storia, ma anche per il modello di società che hanno proposto. Ricordo che molti anni fa ne parlai con un sacerdote niente affatto sprovveduto, anzi abile predicatore, capace sicuramente di convincere molte persone delle sue ragioni. Si dimostrava –e forse era– un sincero democratico, attento al prossimo, fortemente critico del consumismo e delle diseguaglianze economiche. Per un certo tempo la nostra conversazione fluiva in buon accordo, fin quando ebbi la sciagurata idea di equiparare l’assolutismo religioso a quello politico. Non era ancora metaculturalmente maturo da evitare un terreno che si sarebbe rivelato sdrucciolevole per entrambi. Lui infatti, dopo qualche tentativo di contestare la mia posizione, si irrigidì nel suo dogmatismo, mentre io dal conto mio continuavo a pretendere dall’interlocutore che adottasse lo stile di pensiero più consono alla nostra discussione: quello logico-razionale. Oggi, probabilmente, cercherei di adeguarmi al destino dell’altro, dogmatico-fideistico, ricercando quanti più punti di convergenza possibili, nella convinzione che un affrettata chiusura del dialogo danneggerebbe ambedue impedendo a lui di capire me e viceversa.

Ma allora, è facile obiettare, la pericolosità dell’assolutismo religioso non può che crescere a contatto con un assolutismo ‘laico’ altrettanto determinato. È anche evidente che uno stile di pensiero dogmatico-fideistico ha una maggiore difficoltà al dialogo con il diverso di uno stile relativistico-metaculturale. Ne consegue che se si vuole attenuare la pericolosità di quello, conviene sfruttare l’elasticità di questo. Si osserva invece spesso che il relativismo tende, in presenza di un forte dogmatismo, a farsi dogmatico lui stesso, come nella nota e autocontraddittoria affermazione “tutto è relativo”. L’ammorbidimento prodotto dalla variante metaculturale, che non rifiuta il dogmatismo ma lo lega a un luogo culturale (un UCL) riconosciuto e dichiarato, potrebbe forse diminuire la probabilità di una collisione tra opposti stili di pensiero.

Chi aderisce a IMC non dovrebbe dimenticare che questa ipotesi non è nata per entrare in concorrenza con altre più solidamente ancorate nella storia, ma per accrescere le loro probabilità di sopravvivenza sottraendole al pericolo del reciproco annientamento. Chi crede in Dio, in un qualunque Dio, non dovrebbe temere di essere sopraffatto da chi non ci crede, così come chi non crede deve essere libero, ovunque, di non credere.

mercoledì 27 luglio 2011

Una cinquina teologale (i)


Vishnù allungato sul serpente Ananta - Museo Nazionale di Cambogia
[150]
Reputo oggi pericolose, addirittura letali tutte le religioni, ma soprattutto quelle monoteiste, cosiddette 'rivelate': ebraismo, cristianesimo, islam. Che la loro pericolosità confini con la morte è ampiamente documentato dalla storia. Nessuna epidemia ha mai causato tante vittime quanto la guerra dei cent’anni o le conversioni forzate in Africa, America, Asia. Ma anche quante epidemie sono nate al seguito di guerre di religione in ogni parte del mondo! Le più efferate atrocità sono state commesse proprio in nome di una qualche religione, e questo non solo in tempi lontani, di presunta ferocia primitiva, ma ancora oggi, tra popoli di antica civiltà.

Come è possibile questo? Pressoché tutte le religioni, specialmente quelle che si ritengono superiori, non fanno che predicare l’amore, la fratellanza universale, ciascuna pensando di essere depositaria dell’unica interpretazione corretta di questa ideologia. Perché di ideologia si tratta nella maggioranza dei casi, e non dei comportamenti che esse ne sembrerebbero sottintendere. E quelle non sono altro che indicatori di potere, un potere che si autogiustifica dall’alto, ma che poi viene esercitato nella palude del quotidiano.

domenica 24 luglio 2011

Terzo –e ultimo– 'commento d'autore'

[149]
Come 'autore', ma senza pretesa di autorità in proposito, ripeto qui un mio dubbio che mi accompagna da molti anni, ma che un logico riterrebbe logicamente insensato: la riduzione alla monoplanarità che, grazie alla gödelizzazione, unifica struttura e semantica di un enunciato logico non ne cancella l'effettiva biplanarità, ma la nasconde dietro un'unica struttura grafica che attraverso l'interpretazione viene restituita alla duplicità originaria. A evidenziare tale duplicità – riconducibile alla saussuriana duplicità di ‘struttura’ (significato) sul segno, ho scelto di servirmi della proposizione “Io sono vera” anziché, come solitamente “Io sono falsa”. Data la simmetria concettuale di vero/falso (‘vero’ = ‘non falso’ e viceversa), ciò ha comportato solo un piccolo allungamento dell’espressione comprovante l’indecidibilità di “Io sono falsa”, e anche “Io sono vera” precipita nell’indecidibilità.

E siamo alla disperazione di Faust, cui è preclusa la conoscenza, non recuperabile neppure attraverso l’introspezione.

sabato 23 luglio 2011

Secondo commento alla sestina risolutiva dell'autoreferenza

[148]
Questo postino non fa altro che riproporre sotto mentite spoglie IMC, e queste mentite spoglie sono niente meno che i primi versi del Faust di Goethe –dopo i vari prologhi– e un famoso detto di Socrate. La lunga parafrasi che scomoda due ‘grandi nomi’ della cultura universale e un non meno famoso teorema –a dire il vero i teoremi e i parafrasati sono due– della logica formale. Le definizioni originali di IMC risultano peraltro molto più rigorose –e anche comprensibili– di questa tardiva e arzigogolata riproposizione. Allora perché?

È probabilmente in gioco il gusto della variatio, del bis in idem, ma è anche vero che, se già la pura e semplice ripetizione del già detto non ne costituisce un perfetto equivalente (per il diverso contesto) così una ripresa variata può aggiungervi –o togliere– tratti anche essenziali. Nel nostro caso il richiamo a Goethe e Socrate porta su questi ultimi l’interesse del lettore, agendo come un rinforzo di autorità, anche se questo rinforzo devia in realtà l’attenzione facendo passare più facilmente un concetto scomodo che probabilmente i due autori chiamati in causa non avrebbero condiviso.

venerdì 22 luglio 2011

Primo commento alla sestina risolutiva dell'autoreferenza

[147]
Un 'commento d'autore' rischia di essere di nessuno o assai scarso interesse in quanto si presume, specie quando il commentato è ancora fresco, che tra i due ci sia buona concordanza. Questo tuttavia può non essere vero, se per esempio l’autore è solito navigare in UMC senza legarsi stabilmente a un qualsiasi UCL. Non so se ciò corrisponda all’inesausta ricerca faustiana o all’ancoraggio interno indicato da Socrate, o ancora a un perenne oscillare tra i due.

Per Il piccolo commento di cui qui è questione non è necessario ricorrere a una tale alternativa. È sufficiente osservare come diversi ‘stili di pensiero’ producano effettivamente itinerari esperienziali diversi. La tragicità dell’itinerario faustiano porta all’autoannientamento da cui può salvarlo solo l’intervento ‘dall’alto’. La via socratica rifiuta questo intervento e resta nell’ambito della morale senza avventurarsi in ipotesi di salvezza. O forse possiamo dire che il pensiero di Goethe ricerca e sperimenta oltre i limiti dell’io, mentre Socrate ripone la sua fiducia proprio entro quei limiti.

giovedì 21 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (vi)


un orso si rinfresca nel Bioparco di Roma ieri 20 Luglio 2011
Giorgio Cosulich/Getty Images
[146]
Ho chiamato questi ultimi postini la 'sestina risolutiva'. L'aggettivo 'risolutiva' assume tuttavia in questo caso un significato alquanto diverso del consueto, in quanto la soluzione consiste nel rinvio sine die della soluzione stessa. In altre parole non vengono individuati il tempo o il luogo in cui essa si dà, ma è come se restasse fluttuante nell’indecidibilità, pur essendo decidibile ovunque e in ogni momento. Il ‘collasso’ dal virtualmente possibile al realmente avvenuto è una funzione dell’UCL – dell’Universo Culturale Locale e della sua variabilità. Come si vede, siamo nel dominio dell’Ipotesi Metaculturale (IMC). Secondo questa ipotesi ogni problema ammette almeno una soluzione entro un UCL che si tratta di individuare o di costruire, cosa che è sempre possibile anche se non facile da realizzare. Sono ormai molti anni che IMC esiste e dà buoni risultati. Risultati, ovviamente, non legati necessariamente a una cultura precostituita, tali però da generare essi stessi, all’occasione, una nuova cultura.

[Fine della sestina risolutiva dell’autoreferenza]

mercoledì 20 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (vi)


[145] ‘Non c'è due senza tre’, e, se sono indecidibili sia la falsità di una proposizione sia la sua verità, allora sono indecidibili tutte le proposizioni e ha ragione Faust quando dice di non poter sapere nulla, e cade nel vuoto la raccomandazione di Socrate, che oltrettutto, essendo autoreferenziale, esibisce da sola la sua insensatezza.

Insomma, all’uomo non sarebbe concessa alcuna conoscenza dimostrabile. Per Goethe tuttavia la conoscenza e possibile per immagine: ciò che accessibile alla nostra conoscenza non sarebbero le cose, ma il loro simulacro, il riflesso inconsistente dell’inconoscibile.

A questo riflesso, affine al ‘fenomeno’ kantiano, possiamo modernamente attribuire una ‘realtà culturale’, di cui saremmo noi stessi gli artefici, se non come singoli individui, come collettività. Una collettività non universale ma locale, osservabile nello spazio e nel tempo. Di qui la non omogeneità della conoscenza, fonte di discordie e di prevaricazione, giacché ogni ‘realtà culturale’ pretende all’universalità, anche e soprattutto quando ritiene di averne l’immagine esclusiva.

martedì 19 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (v)


[145] 'Non c'è due senza tre', e, se sono indecidibili sia la falsità di una proposizione sia la sua verità, allora sono indecidibili tutte le proposizioni e ha ragione Faust quando dice di non poter sapere nulla, e cade nel vuoto la raccomandazione di Socrate, che oltrettutto, essendo autoreferenziale, esibisce da sola la sua insensatezza.

Insomma, all’uomo non sarebbe concessa alcuna conoscenza dimostrabile. Per Goethe tuttavia la conoscenza e possibile per immagine: ciò che accessibile alla nostra conoscenza non sarebbero le cose, ma il loro simulacro, il riflesso inconsistente dell’inconoscibile.

A questo riflesso, affine al ‘fenomeno’ kantiano, possiamo modernamente attribuire una ‘realtà culturale’, di cui saremmo noi stessi gli artefici, se non come singoli individui, come collettività. Una collettività non universale ma locale, osservabile nello spazio e nel tempo. Di qui la non omogeneità della conoscenza, fonte di discordie e di prevaricazione, giacché ogni ‘realtà culturale’ pretende all’universalità, anche e soprattutto quando ritiene di averne l’immagine esclusiva.

lunedì 18 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (iv)


[144] L'autoreferenza –una proposizione che dica di sé stessa per esempio "Io sono vera"– rasenta l'insignificanza. Nel caso infatti che chi la pronuncia mentisse, diverrebbe “Io sono falsa”, proposizione notoriamente indecidibile (provate a darle il valore vero, allora sarebbe falsa, oppure il valore falso, allora sarebbe vera). Ma, se è indecidibile la falsità di una proposizione, mi sembra perlomeno strano che sia decidibile la sua verità.

Siccome molte migliaia di cervelli pensanti certo meglio di me non hanno trovato nulla da eccepire all’indecidibilità del famoso paradosso di Epimenide cretese (“Tutti i Cretesi sono bugiardi”, sintetizzabile in “Io mento”) ritengo logicamente infondata la mia obiezione. Resto comunque in attesa che mi venga chiarita la sua infondatezza. Il mio sospetto è che, come per dimostrare l’indecidibilità della proposizione autoreferente “Questa frase è falsa” è stato necessario sfaldare su due piani la sua semanticità (il suo significato), così per dimostrare l’indecidibilità della proposizione “Questa frase è vera” è necessario un ulteriore sfaldamento.

domenica 17 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (iii)

[143]
Il famoso consiglio di Socrate, conosci te stesso, è il più difficile da seguire, anzi, a rigor di logica, impossibile, e lo sapevano già i Greci, che conoscevano benissimo le trappole dell'autoreferenza. E allora, perché Socrate da finta di niente?
Perché è un’inguaribile moralista, che non rinuncerebbe mai all’occasione di lanciare ai posteri una bella massima solo perché logicamente inconsistente.

Più avvertito, Goethe apre il suo poema dichiarando che all’uomo è preclusa ogni conoscenza (quindi anche quella di se stesso).
Alla fine ammetterà per l’uomo una conoscenza mediata.
Alles Vergänglich ist nur ein Gleichnis” [Tutto l’effimero non è che metafora.]

Trasferibilità e Convergenza


Annuncio ufficiale: questa mattina è stata conclusa la discussione sul libro "Convergenza e Trasferibilità". Ci siamo (anche se rimane qualche dettagliuccio pratico).

sabato 16 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (ii)


Oedipus Rex, di Max Ernst (1922)
[142]
γνῶθι σεαυτόν
(Socrate)
[Conosci te stesso]

venerdì 15 luglio 2011

La sestina risolutiva dell'autoreferenza (i)

[141]
Habe nun, ach! Philosophie,
Juristerei und Medizin
Und leider auch Theologie!
Durchaus studiert, mit heißem Bemühn.
Da steh ich nun, ich armer Thor!
Und bin so klug als wie zuvor;
Heiße Magister, heiße Doktor gar,
Und ziehe schon an die zehen Jahr
Herauf, herab und quer und krumm
Meine Schüler an der Nase herum –
Und sehe, daß wir nichts wissen können!

(Faust)

[Ho studiato, ahimè, filosofia,
Diritto e medicina
e purtroppo anche teologia!
Con ardore e costanza
Ed eccomi qua, povero stolto!
E ne so quanto prima;
Mi chiamano Magister, perfino Dottore
E sono ormai quasi dieci anni
Che porto per il naso i miei studenti
In qua e in là, in su e in giù –
e vedo che non possiamo sapere nulla!]

giovedì 14 luglio 2011

Estetica come 'valore aggiunto'?

Pitture dell'altopiano Ennedi, nel Chad

[140] Credo di avere già dedicato uno di questi postini al nostro –mio e di Paola– rifiuto del concetto di Arte. Vorrei comunque insistere. Perché rifiutarlo? Effettivamente: basta non servirsene o limitarne l’uso al suo significato artigianale, che comprende anche l’Arte della Fuga (in tedesco ‘Kunst’ è imparentato con ‘können’, ‘saper fare’). L’estetica è un ‘valore aggiunto’, anche se non è da escludere neppure per le pitture delle caverne. Niente quindi contro l’estetica se non avesse preteso, negli ultimi secoli e soprattutto da noi in Occidente, di surclassare quando non di soppiantare ogni altra ‘funzione’ dell’arte. Una statua greca, un mosaico medievale, un affresco rinascimentale hanno perduto ai nostri occhi le loro funzioni –testimoniali, religiose, celebrative– per conservare solo quella estetica. Questa prevaricazione, unita all’ipostasi ideologica del ‘bello’ o al suo successivo degrado di mercato, ciò che ha portato alla valutazione dell’estetica, dapprima con l’apertura al incoerente, al disordine, al caotico, infine con la contestazione globale del concetto.
Si comincia a sentirne la nostalgia.

mercoledì 13 luglio 2011

Ispirazione?


[139] Ieri mi è stato chiesto perché avessi smesso di scrivere musica nel 2009. Ho risposto che non mi veniva più in mente niente. E prima? Mi veniva in mente qualcosa? E che cosa? Una melodia? Uno spunto tematico? Un criterio compositivo? …
No, per questa via non arriverò a nulla. Non credo mi venisse in mente qualcosa di particolare. Era come un riflesso condizionato. Ogni mattina mi sedevo al tavolo di lavoro ed esercitavo il mio mestiere, avessi o non avessi qualche idea.
Qualcuno dirà: e l’ispirazione? Non sapevo neppure cosa fosse. In ogni caso veniva dopo, a cose fatte: “Guarda! Questa mi è riuscita proprio bene!” Accadeva tuttavia di rado. Il più delle volte era un “Speriamo meglio la prossima”.
A un certo punto ne ho avuto abbastanza di questi rimandi, tanto più che il principale interesse lavorativo si era ormai spostato sulla parola. E ho smesso di scrivere strani segni su carta pentagrammata.

martedì 12 luglio 2011

Dialogo a proposito di uccelli


[138]
– Perché gli uccelli hanno attirato da sempre l'attenzione e l'ammirazione degli uomini?
– Perché sanno fare una cosa che piacerebbe molto anche a noi: volare.
– Ma oggi la sappiamo fare, e meglio degli uccelli.
– Più rapidamente, non certo più agilmente… prova a confrontare quanto ci mettono a cambiare direzione di volo un rondone e un aereo, per non parlare di un missile…
– E allora le mosche…?
– Lasciamo stare gli insetti, che sono dei ‘fuoriclasse’ in tutto. Ma tra i vertebrati…
– I pipistrelli non scherzano quanto a agilità di volo, ma sono molto meno ammirati degli uccelli.
– Quando si è trattato di imitarli, ne è venuto fuori più un pipistrello che un uccello, vedi i disegni di Leonardo.
– O gli angeli, francamente ridicoli con quelle ali posticce, appiccicate sulla schiena e senza muscoli per muoverle.
– Forse dovremmo considerare gli uccelli e il volo in generale dal punto di vista simbolico, come metafora di libertà, affrancamento dal peso della quotidianità terrena…
– Come se gli uccelli avessero vita facile con la costruzione del nido, l’allevamento dei piccoli, la loro difesa…
– Né più né meno di qualsiasi altro animale, uomo compreso.
– Quando c’è di mezzo l’ideologia, gli uomini perdono la capacità di vedere le cose per quello che sono.
– E come sono, se non come le vediamo?
– Non sappiamo, le conosciamo solo attraverso i filtri ideologici che ci siamo dati. Così per esempio gli uccelli sarebbero più ‘liberi’ di noi, che siamo legati alla terra dalla forza di gravità…
– Di qui il passaggio al simbolo, all’allegoria…
– Un passaggio che ci rende più ‘liberi’ di qualsiasi uccello, anche se siamo rinchiusi in una prigione…
– Lo dici quasi come se ci credessi. Per parte mia penso che poche cose ci rendono schiavi quanto i simboli, le ideologie e le religioni.
[L’osservazione degli uccelli è ormai in molti paesi un vero e proprio sport, che tuttavia non implica un effettivo impegno per la loro conservazione. Che senso ha osservarli se poi distruggiamo il loro habitat, avveleniamo le loro fonti di cibo, sconvolgiamo perfino le condizioni climatiche che ne permettono l’esistenza?]

lunedì 11 luglio 2011

Dialogo tra due donne preistoriche


[137]
– Oggi mi sento preistorica…
– Ma che dici? Ti vedo come sempre: reale e presente, altro che preistorica…
– Anche gli uomini preistorici si vedevano nella loro realtà presente.
– Come fai a saperlo, visto che vivi nel presente di oggi?
– E in che cosa credi che il presente di oggi differisca dal presente di ieri o da quello preistorico?
– In questo: che il nostro presente si svolge oggi, non nell’età della pietra.
– Ma se sei stato proprio tu a dire che chi sentivi preistorica.
– Ho detto che mi ci sentivo, non che ero preistorica.
– Ma poi hai affermato l’indistinguibilità del presente di oggi da qualsiasi altro…
– … cioè l’impossibilità di definire una coordinata temporale…
– … o magari anche spaziale…
– … nello spazio-tempo.
– E allora, lasciami sentirmi preistorica!
– Già, il tempo c’è solo al presente…
– Il resto sono solo chiacchiere.

domenica 10 luglio 2011

Procrastinare la grande catastrofe


[136]
Circa 950.000 anni fa, in concomitanza con la 732ma edizione dei giochi che molti millenni più tardi si chiameranno 'olimpici', si è svolta la quarta conferenza decennale interspecifica del genere Australopithecus e Homo. Il luogo non si conosce con esattezza, ma deve essere stato vicino all’attuale città di Bergen, allora allietata da un clima temperato, favorevole alla maggior parte delle specie i sottospecie convenute. I pongidi, tra cui 48 specie di gorilla, erano ammessi, in numero limitato, come osservatori. Lingua ufficiale era l’urugundo, allora diffuso come seconda lingua in tutti i continenti. I collegamenti con la sede della conferenza, sia fisici che telematici erano buoni, quasi al livello odierno. Si ricorda che gli ominidi allora assistenti, australopitecini compresi, avevano sviluppato alcune decine di culture (senz’altro paragonabili se non superiori alle più evolute tra le attuali), tutte però estinte con la grande catastrofe di 487.000 anni fa). I problemi allora in discussione erano però ben diversi da quelli di oggi. Non il fabbisogno energetico né la sovrappopolazione e neppure l’inquinamento preoccupavano le popolazioni di allora giacché la pluralità delle specie e le esigenze diversificate incidevano in vario modo sulle risorse del pianeta riducendo al minimo la competizione e mantenendo entro limiti ecologicamente compatibili la produzione di beni e rifiuti. Tutto questo riduceva anche drasticamente la conflittualità. Ciò che agli uni appariva appetibile, addirittura indispensabile, per gli altri era superfluo, perfino dannoso, cosicché potevano darsi incomprensioni, disistima reciproca, raramente però aggressività, così come neppure noi aggrediamo un altro vivente solo perché carnivoro e noi vegetariani. La diversità risulta migliore garante di sopravvivenza che non l’omogeneità. Non solo perché differenzia la richiesta ma anche perché non ha bisogno della concorrenza. 950.000 anni fa con quella quarta conferenza, riuscimmo a procrastinare di mezzo milione di anni la ‘grande catastrofe’ che portò all’unificazione –genetica, poi culturale– delle specie e sottospecie di ominidi ad opera dell’implosione mediatica, livellatrice delle differenze. Allora gli ominidi se la cavavano rinunciando ai benefici della tecnologia, oggi c’è da dubitare che riescano una seconda volta.

sabato 9 luglio 2011

Fermati per accertamenti


[135] Era stato certamente il castello a dare il nome –Castelnegro– allo sperduto paese dell'interno, cui si arrivava dopo alcuni chilometri di strada sconnessa, incassata tra alte rocce brulle sulle quali si vedevano volteggiare grossi rapaci, forse poiane o nibli bruni. La giovane coppia che, incuriosita da un vecchio cartello all’imbocco della strettoia –‘visitate Castelne…’–, stava percorrendo quel tratto di strada assai poco frequentato, era ben decisa a raggiungere il paese, nonostante un altro cartello segnalasse la presenza di una concirconvallazione che avrebbe ricondotto sulla provinciale più a valle.Viaggiare di più ...Si diceva nel cartello… questo però era bianco, un poco spettrale nella luce della sera. A essere nero era semmai il paese, costruito in pietra vulcanica, scurissima: un’unica assalita dalla chiesa portava dritto al castello. I due avevano lasciato la macchina fuori dal paese, chiuso al traffico, comunque non percorribile per la presenza di alcuni gradoni, scomodi da superare perfino a piedi.
Abitanti non se ne vedevano, solo qualche cane randagio affetto da digiuno cronico.
Dopo circa duecento metri quell’unica strada terminava davanti a un cancello di ferro, chiuso da un paletto arrugginito ma privo di catenaccio. Con poco sforzo i due si trovarono, quasi senza rendersene conto, in un giardino incolto che in un tempo lontano doveva essere stato, a giudicare dai pochi ma lussuosi resti, addirittura principesco. Da un portone sgangherato uscivano suoni come di cucina e voci di due –un uomo e una donna– che litigavano in una lingua insolita, forse centro-asiatica. I visitatori si avvicinarono alla cucina da cui provenivano suoni e voci, a chiedere notizia sul castello e i suoi proprietari. In quel momento da una porta laterale fece la sua apparizione una figura di donna anziana, alta, vestita di bianco ma, a ben guardare, poco curata, anzi decisamente in disordine. Ciò nonostante si presentò con molta cortesia come la proprietaria del maniero – tutto, in lei come nell’ambiente, rimandava di tempi lontani, si sarebbe detto di secoli. Il personale che prima si era sentito litigare non ritenne opportuno farsi vedere; agli onori di casa, per così dire, provvide la stessa padrona con del tè di scarsa qualità e alcuni biscotti che sapevano di muffa, il tutto servito in piatti e bicchieri di plastica su un gigantesco tavolo di noce nel salone centrale del castello.
“Sapevo che sareste venuti –cominciò la signora–, anzi sono anni, secoli che vi aspetto: questo mi comandò il mio buon Carlo nel donarmi il feudo in cui vi trovate”. “Carlo chi?” – azzardò la sposina (i due erano chiaramente in viaggio di nozze). “Carlo Martello, naturalmente!” fu la risposta. I due si scambiarono uno sguardo come per dire: abbiamo capito. “Purtroppo –riprese la feudatari– Carlo non mi ha detto chi dovevo aspettare e per che cosa. E così col tempo ho consumato tonnellate di biscotti ed ettolitri di te per le persone sbagliate, per lo più mendicanti pellegrini in viaggio per Santiago, ma anche ladri e soldataglia allo sbando, a prescindere dalle meretrici al loro seguito. Questo castello era un tempo ricchissimo, ma un po’ alla volta quelli mi hanno preso quasi tutto. Vedete –disse accennando ad alcune croste da rigattiere pendenti alle pareti– sono rimasti solo questi Tiziano, Tintoretto, quei due Rembrandt e di là, in camera da letto, un Leonardo di Capri, poca roba, ma che posso fare? Sono sola a guardia di queste ricchezze, anche se loro mi sono di valido aiuto”, e accennò ad alcuni gatti, sparsi per i tetti. Frattanto si era fatto buio e la castellana, con in mano un candeliere, aveva intrapreso una visita guidata del castello. “Attenti ai trabocchetti” –raccomandò–, gli ho segnalati quasi tutti, ma con questo buio qualcuno potrebbe sfuggirci. Si tratta comunque di cose di poco conto, il pozzo dei coccodrilli l’ho fatto prosciugare duecento anni fa. Ecco però la camera delle torture, oggi ridotta a magazzino delle scope. Questa invece è l’annessa ‘Cappella del Grande Perdono’, tappa obbligatoria per i condannati al solo taglio degli arti! Anche questa è una pratica caduta in disuso, sostituita oggi dal pagamento di un’ammenda in euro, più utile per la manutenzione dell’immobile. Da questa finestra si può ammirare di giorno la vista dell’unica strada che dal maniero porta alla chiesa e che sembra un treno fermo in stazione. Ed effettivamente un mattino lo visto partire…”
La visita turistica è poi continuata attraverso sale e corridoi, per lo più spogli, di cui tuttavia la castellana vantava le più improbabili singolarità. C’era la stanza della mummificazione, con alcune mummie già confezionate tra cui quella di Ramses II e una, più piccola ma autentica, di una gallina faraona. C’era poi il ‘Corridoio delle cento docce’, tutte non funzionanti, ma indispensabili per le Olimpiadi del 2030; quindi la stanza del tesoro, nel cui mezzo troneggiava la ‘Cattedra di San Pietro’, con tanto di autentica firmata da Callisto V. Di particolare interesse storico una bottiglia in plastica, dono di Luigi XIV, che lei pronunciava alla francese quasi come ‘Lui scatorcio’ e del quale era stata l’amante per alcuni decenni…
Questo ricordo scatenò in lei una reazione furibonda: impugnando una spada strappata un’armatura di Carlo V, la povera demente accennò a una ridda infernale trinciando l’aria con colpi di grande veemenza. A questo punto i due malcapitati visitatori, afferrato il candeliere che la vecchia aveva scaraventato a terra appiccando il fuoco a certi tendaggi, guadagnarono una porta laterale che per fortuna loro dava all’esterno, non lontano dal posto dove avevano lasciato la macchina. Mentre si allontanavano, dietro di loro il cielo cominciava a rosseggiare. Si fermarono alla prima stazione di polizia, dove peraltro nessuno sapeva di un paese chiamato Castelnegro, né di un castello abitato da una vecchia pazza. In compenso i due furono fermati per accertamenti.

venerdì 8 luglio 2011

Diamoci da fare


[134] Prima di decidere a chi va il potere, diamoci da fare perché il numero di persone in grado di gestirlo sia il più alto possibile.

giovedì 7 luglio 2011

A chi il potere?

Agim Meta - Il dottore Adhamudhi e la grande mano, con piccole persone (2007)

[133] A chi il potere?
Alla qualità?
Alla quantità?
Alla quantità della qualità.

mercoledì 6 luglio 2011

Agli sgoccioli


[132] "Dici che mai un'altra specie animale si è ritenuta padrona della terra, nemmeno il Tyrannosaurus rex?"
"Certo, perché era troppo stupido per farlo".
“Eppure è stato padrone di fatto per circa 20 milioni di anni.”
“Appunto perché da un ‘fatto’ non è stato capace di risalire a un ‘diritto’.”
“E questa ritieni sia una prova di intelligenza?”
“Certo, da una banale ‘circostanza’ a un ‘principio’.”
“Ecco perché credo che il dominio di Homo sapiens sia agli sgoccioli.”

martedì 5 luglio 2011

... sì e no conosciamo l’involucro...


[131] Del nostro pianeta abbiamo solo qualche conoscenza diretta limitata a un sottilissimo strato superficiale, quello che ospita la vita o poco più. Già di ciò che succede a pochi kilometri sotto di noi sappiamo poco o nulla, suppergiù quanto di Marte o Venere, quanto cioè ci dicono le conoscenze indirette, basate su calcoli e congetture. E anche dentro questi ristrettissimi limiti gli errori di valutazione sono all’ordine del giorno, nonostante i nostri potenti strumenti di osservazione e i sofisticati sistemi che ne inquadrano i risultati in maniera che riteniamo affidabile. E allora, perché quegli errori, perché la nostra gestione del pianeta è così inaffidabile?

È presto detto: per la nostra ingordigia, perché a un certo punto della nostra evoluzione ci siamo autonominati ‘padroni’ –non più semplici inquilini– di questo corpo celeste di cui sì e no conosciamo l’involucro. Nessun altro animale è mai stato così sciocco e presuntuoso da ritenersi padrone là dove non è che ospite occasionale, tollerato fintantoché la sua presenza non infastidisce chi lo ospita più di quanto una zanzara infastidisce noi.

lunedì 4 luglio 2011

Ritorno sul Feldenkrais



In questi giorni mi è capitato più volte di ritornare sul tema Feldenkrais, a causa di un Postino pubblicato sull’Oblò. Questo a prescindere dalla pratica del suo metodo, tre volte la settimana sotto l’intelligente guida di Valentina – una guida che, proprio per essere del ‘metodo Feldenkrais’, non può che essere ‘intelligente’.
Infatti questo metodo si basa essenzialmente sull’interazione corpo-mente o meglio sulla comprensione del corpo attraverso la mente e sulla consapevolezza di questa nel movimento del corpo. Qualcosa di assai più complesso della fisioterapia, uno ‘stile di pensiero’, un modo di essere e di gestire il sinolo mente-corpo a tutto vantaggio dell’individuo e, attraverso lui, della società.
Tra queste sue caratteristiche –che, torno a dire, sto direttamente sperimentando nel corpo e nella mente– ho pensato a una possibile sinergia tra IMC e il Feldenkrais, così affini nonostante il diverso campo applicativo.
A questi due ambiti di ricerca e pratica si sta aggiungendo un altro ambito esperienziale, anche questo nato da IMC e dagli studi di G. Flaminio Brunelli e attualmente ‘gestito’ dal compositore, ricercatore e didatta , Emanuele Pappalardo.
Molte cose legano tra loro queste ricerche, in particolare un simile disegno formativo, che mira alla sopravvivenza della specie umana, oggi evidentemente messa in forse dai suoi stessi membri, resi ciechi da un’ideologia non più sostenibile: l’ideologia del “di più” della ‘crescita infinita’ su un pianeta finito.
Il problema che ci riguarda, ha inizio da noi come individui integranti corpo e mente, per diventare quasi subito il problema sociale, politico per eccellenza.

domenica 3 luglio 2011

Quanta parte di autosuggestione...?



[130] Che accade quando è l'autore stesso che per una ragione o l'altra propone per prima la versione orchestrale di un suo lavoro per voce e pianoforte. Qui è molto difficile sottrarsi alla facile considerazione che il testo col pianoforte deve essere solo una versione provvisoria, quasi un appunto per una successiva stesura definitiva. Non è raro, anzi è pressoché la norma che le opere vocali di maggiori dimensioni vengano realizzate dapprima per canto e pianoforte e solo successivamente nella definitiva veste orchestrale. Dico questo perché in questi casi la stesura col solo pianoforte viene a priori percepita come incompleta e bisognosa di integrazione. Vi sono tuttavia numerosi esempi – mi vengono in mente i mahleriani Canti di un viandante– concepiti, come i Lieder schubertiani, per canto e pianoforte. Qui la versione definitiva si impone al nostro orecchio come quella ‘buona’ e l’altro solo come un abbozzo. È una conseguenza della nostra conoscenza dei fatti? E, se si venisse a sapere che la stesura ‘buona’ è appunto quella orchestrale e l’altra una ‘riduzione per canto e pianoforte’. Quanta parte di autosuggestione hanno le nostre valutazioni?

sabato 2 luglio 2011

Offesa alla riservatezza



[129] Molti Lieder di Schubert hanno spinto altri compositori a tentarne la traduzione orchestrale: tra questi Brahms, Reger, Offenbach, Webern. Neppure quest’ultimo, che pure ha dato una sensibilissima versione di alcuni Ländler, si può dire sia pienamente riuscito nell’impresa. Anche nei casi in cui l’originale stesura per pianoforte sembra suggerire il suono di uno strumento a fiato o ad arco, addirittura di un’intera orchestra –come nel caso dei goethiani Prometheus e An Schwager Kronos– la trascrizione completa non aggiunge qualcosa. Si direbbe piuttosto che toglie: la nettezza timbrica, forte e inequivocabile, del pianoforte. Anche quando questo richiama suoni di casa in un’orchestra, è appunto il richiamo di qualcosa che non c’è ma viene ricostruito nel ricordo, nell’allusione-illusione che di un semplice accompagnamento fa il vero interprete del canto e è dei suoi più segreti significati. L’esplicitazione strumentale della trascrizione offende la riservatezza dell’atto compositivo primario.